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Luigi Meneghelli     | english text
Geometrie
In Sonia Costantini, cat.  delle mostra, Studio Rossi Arte Contemporanea, Verona, febbraio 1992


La superficie come luogo di eventi regolati da leggi interne; la superficie come struttura essenzialmente sintattica; la superficie come «entità da costruire e non solo da coprire» di pittura: è su questi problemi di carattere prettamente teorico che si va elaborando l’ultima ricerca artistica di Sonia Costantini. Abbandonato l’uso del colore emotivo, materico, «iscritto in una sorta di chimica della profondità», il lavoro si è spostato verso un atteggiamento tutto concentrato sui procedimenti formativi dell’opera. Via ogni tentazione narrativa o fabulativa e al suo posto attenzione agli elementi basici del linguaggio (lo spazio, il valore cromatico, il rapporto compositivo). Via ogni residuo di soggettività e al suo posto un fare sorvegliato, se non addirittura regolato da una severa disciplina costruttiva.
Tutto questo però non comporta un recupero del radicalismo anni ’70, quando fare pittura significava studiare la pittura tout court, ostentare tautologicamente gli strumenti dell’operare (tela, pennello, colore), ma   impiegare la pittura come  elemento che organizza il quadro,  che produce il  vedere     ( anche se inteso nel suo significato più scarno, più mentale). Quello di Costantini non è un Discorso sul metodo, caso mai un metodo per «discorrere», una serie di regole su cui innestare il rito del dipingere.
E le costanti sono presto dette: rapporti schematici, tinte fredde, rigidezze geometriche, giustapposizioni di piani cromatici in equilibri aperti..... Ma a contare non è il metodo di base, bensì il sistema di relazioni e di forze che il metodo stabilisce nel quadro: mai spazi delimitati, ma reticolo (o incastri) di aree, mai geometrie passive, ma geometrie in tensione, oltre i confini puri e semplici della formalità, mai contrasti netti di colore, ma scarti di intensità, sottili giochi di scale tonali.
In questo modo l’opera si fa anche problema percettivo, implica tutta una serie di quesiti di carattere «gestaltico», una continua investigazione su quella che è la trasformazione della forme che si invera sotto gli occhi, un po’ come succede nei «quadrati» di Albers che realizzano un’idea di spazio in espansione, di bidimensionalità dilatata.

Ma Costantini è lontana da ogni discorso di pedagogia visiva (presente invece in Albers), come è lontana dalle severità tettoniche di un Mondrian o dal rigore ascetico di un Malevic. La sua geometria presenta maggiori riferimenti con le iridescenze di Balla, con i ritmi pausati di Rothko, se non addirittura con i filtri dinamici di Lo Savio. È un lavoro infatti che, pur rimanendo nella sua autosufficiente concretezza, sembra suggerire anche una sorta di concretezza  luministica, una marezzatura superficiale, una indagine su quello che può essere il valore della luce (intesa come una delle modalità di essere del quadro).
Il tutto comunque non porta ad un linguaggio avventuroso, vitalistico, accidentato, ad una composizione bizzarra, anomala, ma a un concetto di geometria che afferma uno spazio non ancora definito (o uno spazio indefinibile). Non vengono comunque alluse ulteriorità prospettiche o metaforiche e tutto si risolve nel trattamento della superficie (anche se le modulazioni del colore e i vari pattern geometrici possono far pensare all’immagine del quadro nel quadro, al  simbolo del doppio e dello specchio).
Costantini mette in scena molte possibilità di forma e molti eventi di pittura, quasi a voler riflettere il più a lungo possibile sull’esperienza dell’arte. Ed è in questo contesto che l’incernieratura costruttiva (la geometria) non è più assunta solo nel suo valore etimologico di «misurazione della terra», ma anche come misurazione del sogno, non più solo come serialità di segni primari, ma anche come gioco d’animazione della struttura, di ginnastica visiva.

Martina Corgnati     | english text

In Sonia Costantini, cat. delle mostra, Galleria Vanna Casati, Bergamo, 1993

 

La pittura trasparente e raffinata di  Sonia Costantini sembra farsi consapevolmente   erede   di   una   tradizione   composita  che  dal Moholy-Nagy  più  segreto  si  trasmette  per  filiazione   diretta ad Albers e per indirette affinità elettive a Rothko. Ma ancora  più drastica nella giovane   pittrice  mantovana appare la   riduzione  ai  minimi  termini  di un   presupposto   formale che dovrebbe  conferire  al quadro la  solidità  di una  struttura, ancora più   assoluto   e   però   controllato  l’abbandono alle intrinseche possibilità del colore. Col rigore del più convinto razionalista ma al tempo  stesso  la  sensibilità  sottile  di un  lirico  dell’età arcaica,  la pittura di Sonia Costantini promette spazi virtuali e profondissimi “per via di levare”, sottraendo perciò all’occhio qualunque riferimento che gli consenta un appiglio, una definizione. Ma la superficie si propone anche nella sua assoluta intangibilità , nella sua specchiante, riflettente, impenetrabile alterità: indipendentemente perciò da quello che Kandinsky definiva il suo “spirito”, le sue qualità intrinseche.E che Sonia Costantini esalta sempre utilizzando, da una tela all’altra, il colore quasi come un “tema” per sinfonie monocrome con pochissime variazioni, per impeccabili analisi ottico-formali. dove nelle profondità più recondite del colore, fra le molecole, verrebbe da pensare, del pigmento disteso in patine sovranamente uniformi, sprigiona una luce endogena. Una luce di cui la Costantini sa evidenziare quasi la qualità vibratoria, raggiante.La luce qui non è materia, non è utopia, non è ideologia, non è ricerca programmatica ma fenomeno di natura energetica, quantistica, impalpabile. La pittura sa trattenere il dato “fisico”, scientifico della luce, sembra progettare, da una tela all’altra, le leggi della rifrazione e dell’assorbimento: e lo fa però, con apparente paradosso, non per via tecnologica o elettronica o sperimentale, ma con i mezzi più semplici e più tradizionali, l’olio e la tempera all’uovo. Perché la luce di queste superfici ha anche una natura più recondita e meno definibile, una natura poetica: ma non mai aggressiva e perentoria.Per questo s’imparenta spontaneamente con “datità”  meccanico-elettroniche, minuziosamente misurabili, ma al tempo stesso con il melanconico “meriggiare” tardo-estivo delle Lunette Aldobrandini, con il sovrano silenzio delle stanze di Vermeer, con la cristallina nitidezza degli Opens di Motherwell. È sempre la stessa luce della pittura, entità universale e tuttavia sorprendente, ogni volta, nel suo ri-manifestarsi autentico. E di quest’ultima c’è da dubitare che un matematico possa mai scriverne la formula.

 

Luigi Meneghelli - Geometrie
Martina Corgnati 1993

Diego Collovini      | english text
Le visioni delle luce
Da: “TITOLO” n°15, Perugia,  primavera-estate 1994


Sonia Costantini promuove una personale riflessione su una pittura che si dà come risultato di una osservazione che nasce dall’interno di un particolare e personale rapporto con il dipingere. Lo scopo è la trasformazione della superficie del quadro in un campo pittorico, dotato della capacità di proporsi come una presenza oggettiva in grado di agire sullo spettatore attraverso gli effetti della rifrazione cromatica e del flusso dinamico nel rapporto colore-luce. Il procedere artistico di Sonia Costantini vive di una serie di reazioni ai problemi specifici del colore e della luce, con personali coinvolgimenti verso i problemi della pittura considerata certo come specchio di un’idea, ma soprattutto come l’oggettivazione di una personale visione delle cose. Tale procedere va gradualmente definendo un oggetto quadro, che si configura come la sintesi tra antiche tecniche pittoriche e le più recenti esperienze. E sono proprio queste ultime che si propongono come continuità alle indagini di una pittura di composizione come quella di Albers o di Bill, ma nel contempo una pittura di tipo analitico rimanda ad un agire pittorico che tiene sempre presente l’effetto, la percezione.
Lo scopo di Sonia Costantini è indagare sulle qualità del colore e della sua intensità nel suo mostrarsi e nel suo trasformarsi, un’analisi della luce nelle diverse trasparenze, nella differente compattezza del colore, nelle molteplici velature e sovrapposizioni. La fase operativa è comunque un procedere per reinterpretazioni delle diverse tonalità e dei diversi cromatismi.
Il quadro diventa così un corpo pittorico, capace di dialogare con la forma, non sempre così fredda e impersonale come sembra ad una prima lettura. Il colore si fa lieve, etereo, guadagna in vibratilità emozionale, altre volte lo stesso spessore del colore rende la superficie più densa e più calda quasi ad assumere una consistenza tattile, ma  sempre in un campo pittorico nel quale regna la luce: l’emozione e la percezione non possono che risiedere alla radice della ricerca pittorica dell’artista mantovana. Il risultato però è sempre ponderato e razionale, e la realtà che ne scaturisce sembra oggetto esclusivo del mondo delle idee. La stessa atmosfera, che si crea attorno alle opere dell’artista, concorre a definire l’azione materiale dell’agire pittorico e, nello stesso tempo, insinuarsi nello spazio della pura percezione, nel quale regna il possibile dell’immaginazione.

Paolo Biscottini     | english text
Ombre
in “Sonia Costantini”, Catalogo della mostra, Artestudio Sumithra, Ravenna gennaio 1995

                           
La ricerca di Sonia Costantini si fonda indubbiamente sulla consapevolezza del valore fondamentale, in pittura, della trasparenza e della luminosità, concepite come il registro delle modificazioni non tanto della percezione visiva, quanto di quella mentale. L’opera si configura non come la rappresentazione del mondo visibile, né come il tentativo di valicarne le soglie; né tanto meno appare riconducibile a processi di tipo diaristico. La luminosità di Sonia Costantini ha valore mentale, in quanto testimone dei mutamenti che la mente registra, mentre il pensiero da un lato e le emozioni dall’altro, scorrono secondo diagrammi distinti, ma non privi di tangenze, il cui esito estetico consiste probabilmente nella percezione di zone d’ombra riconoscibili come fonte primaria della luminosità stessa. Si rileva, al proposito, il carattere prettamente lombardo o padano di un tale processo creativo, riconoscendo  nella tradizione pittorica lombarda -Luini specialmente e, di lì in poi, attraverso una ricerca della luce nel colore, scavando morbidamente nelle brume fino a scoprirne bagliori impensati, come nell’informale lombardo, o, con esiti altissimi, nella pittura di Claudio Olivieri, dalla fine degli anni settanta in avanti - la specifica sperimentazione dei chiari indagando gli scuri, all’interno di trapassi cromatici lievi come fremiti, sussulti. E queste ombre che la pittura di Sonia Costantini individua sulla tela con rigorosi e distillati processi (dall’imprimitura a gesso con pigmenti, la tempera all’uovo a velature successive e poi la spatola di oli lavorati a rotazione mancina) appaiono piuttosto come sussulti della coscienza, che nella penombra si apre alla luce. Che tutto ciò generi anche valori formali - pur all’interno di una pittura che intende restare astratta fin nell’abolizione stessa del titolo che, anche involontariamente, potrebbe fungere da referente - non è né casuale né irrilevante, perché corrisponde ad un’esigenza conoscitiva, che solo superficialmente potrebbe configurarsi come autoconoscenza, consistendo piuttosto in una percezione cognitiva del ritmo dell’esistenza medesima, e non della propria soltanto. L’ombra che supera la frontalità dello spazio, ne suscita la profondità, ed essa è a un tempo materiale e spirituale, se è vero che nella fisicità della pittura - quasi evidenziata dalla lieve increspatura della spatola - è data all’artista la conoscenza  del tempo presente come registrazione di una sosta che la mente conquista, quasi come spazio e tempo nuovo. Una progettualità rigorosa consente l’avvenimento che ogni opera di Sonia Costantini contiene; una progettualità di cui la tecnica è solo strumento, giacché l’indagine delle superfici alla scoperta della luce si nutre, come il ragionamento stesso, o il ritmo musicale, di apparizioni o invenzioni improvvise, che suscitano sommessi racconti lombardi, ove, con estremo pudore (Claudio Cerritelli ha recentemente parlato di “una volontà che spesso confina con il silenzio e l’isolamento”), si tenta la verità di sé e delle cose.

 


Giovanni M. Accame     | english text
da  Differenze nella pittura
Catalogo della mostra Galleria Kontraste, Forte dei Marmi, MA 1996, Galleria Vanna Casati, Bergamo,  1996, Galleria L'Incontro, Imola, BO, 1997


Per Sonia Costantini il problema della pittura coincide con la definizione della superficie. Fare pittura è circoscrivere una porzione di spazio bidimensionale e dargli un senso. La difficoltà e il fascino dell’operazione risiede nell’equilibrio che la pittura deve mantenere tra la definizione di un concetto e la realizzazione di sé come manufatto. In questo campo la lezione di Reinhardt è fondamentale. Costantini ne è consapevole e, del maestro americano, accetta il procedimento che conduce alla definizione concettuale della superficie, ma non condivide l’arretramento fino ai limiti della percettibilità a cui Reinhardt sottopone il colore e ancor meno accetta, l’eliminazione di ogni traccia sensibile dalla superficie. Sono infatti la presenza forte del colore e i lievi interventi che muovono le stesure monocrome a completare l’assunto iniziale. Dove, al concetto di superficie, raggiunto nella registrazione di piani sovrapposti, si accosta la fisicità della pittura, nella percezione di un accadere che vive l’idea a cui si accompagna.

Marco Goldin
Il Sentimento e la Forma
In Pitture. Il sentimento e la forma
Catalogo della mostra, Cà dei carraresi, Treviso 1996 Edizioni Electa, Milano
in Scrivere di pittura - Artisti italiani del novecento, 1997 Marsilio Editore


...... Così c’è nel lavoro di Sonia Costantini un desiderio vero di lucida e tagliente grammatizzazione della pittura. Come una sua nuova alfabetizzazione, e la pittura dovesse nascere adesso per la prima volta, avesse bisogno di strumenti per istituirsi, per darsi limiti entro i quali vivere. Commuove nel suo impegno questa fiducia accanita, questa fedeltà totale a uno strumento, che non le consentono divagazioni e anzi le impongono di essere dentro il colore, fibra dopo fibra, chimicamente accordate e con la poesia dell’ora estrema. Quando la tensione per l’infinito raggiungibile non è altro che lo sprigionarsi di un mattino mai naturalistico e invece tutto internato nella turbata, lancinante diramazione del colore compatto, tessuto come una superficie inespugnabile.
Ed è proprio sulla superficie che si gioca tutto il rischio della pittura della Costantini, con quel riferimento evidente alla lezione di Reinhardt, ma non così estremizzata, come se una dolcezza segreta attraversasse la diluizione trattenuta del colore; avendo allagati quegli spazi del nulla, quelle fessure entro le quali si stabilizza una chiarità appena trattenuta, che scandisce il tessuto luminoso. È così che questa pittura sta tutta nel raccogliersi del colore; nella sua intensità, nell’essere immagine di un’immagine che non c’è. E dall’assenza, dal suo replicarsi come un baluginio trattenuto, nasce il fascino di una ricerca che appare tra le più mature e motivate nel campo che fu, negli anni settanta, quello della Pittura-pittura, e che si spense per evidenti ragioni di copiatura di se stessa.
Invece Sonia Costantini mostra nuovi motivi di approfondimento, e l’ordine della tela, il suo fluire come un unico colore, sono gli accenti di una concentrazione altissima, tesa sul filo dell’ineludibile distanza, che si placa nel muro compatto della luce, nel suo trasmigrare e assieparsi oltre il confine stesso della pittura. Eppure questa è pittura di una stasi, di un tempo lungo di osservazione e realizzazione, di una sovrapposizione tra il vedere e il sentire, tra il vedere e l’essere. Non esercitazione linguistica, ma addensamento del colore, strutturazione della luce, assolvimento di un compito preciso dentro lo spazio. Come se la forma, per essere così descritta, avesse bisogno di un sostegno determinato dall’impronta luminosa; e soltanto dalla loro contemporanea azione potesse dirsi pienamente compiuta.

 


Fabrizio D’Amico     | english text
Il tesoro lento e inattuale di Sonia
In Sonia Costantini, catalogo della mostra, Padiglione d’arte contemporanea – Palazzo Massari, Ferrara, dicembre 2001


Davanti alle tele di Sonia Costantini si deve sostare a lungo, e in silenzio: condizione necessaria del vedere. Chiedono dunque molto, queste tele, a chi le accosti: quello che di norma la pittura non pretende per sé. E anche se è d’altra parte vero che tutta la vera pittura ha bisogno di allontanare da sé l’ingombro e il rumore dell’esistente per farsi davvero ascoltare, questa verità, condizionante nel caso di Sonia, ne fa un’eccezione profondamente anomala rispetto ai tempi che vive.
Inattuale, dunque, per questo, prima e più che per la sola presunta inattualità dell’esercizio, oggi, del mestiere della pittura, e della pittura monocroma in particolare. Fosse questo soltanto, basterebbe dare a Sonia dei padri autorevoli (da Mondrian ad Albers, da Rothko a Reinhardt a tutta la pittura analitica d’anni Settanta: genealogia più volte, e con differente plausibilità, stilata per il suo lavoro), e tirare le somme.
Ma, ammesso anche che una parte (solo una parte) di quei nomi possano essere considerati realmente “padri” rispetto al suo lavoro, non credo che riconoscere nella Costantini una personalità congruamente organica a quell’asse paradigmatico possa avvicinare alla comprensione vera della sua pittura. La quale – e sembra che di questo ci si voglia troppo spesso dimenticare - ha luogo oggi, circondata da un mondo che dichiara nei suoi confronti ben altra estraneità rispetto a quella, poniamo, che Albers  poté avvertire a Weimar prima, al Black Mountain College poi. La qual cosa non agisce soltanto sulla percezione possibile dell’opera, ma certamente anche – prima, e in modo ancor più rilevante: giacché Sonia è perfettamente consapevole, in ogni punto del suo agire, del futuro che va preparando alla sua pittura – sul suo momento germinativo: quando riconosce lucidamente l’incommensurabile iato che separerà la sua pittura dal mondo. E ne ascolta, trepida, l’eco; e si arma di cultura visiva (ma non solo), che frapporrà, a difesa, fra sé e il rumore del mondo. Forte e fragile come un diamante, Sonia sa già dall’alba della sua opera cosa prepara per essa: per questo, anche, il destino della sua pittura è sempre (come confessa nel colloquio con Claudio Olivieri che pubblichiamo in calce a questa nota) compreso, prefigurato nel suo progetto.
È dunque fin dalla sua prima scaturigine che la pittura della Costantini porta sulla pelle scritta la sua inconciliabile alterità al suo tempo: e di ciò Sonia è interamente avvertita, allo stesso modo in cui Canova era conscio della propria inattualità rispetto al suo tempo. Neoclassica, allora, Sonia: armata dell’orgoglio, e forse della malinconia, di chi sappia di agire al di là della propria epoca. Come neoclassico è stato Gerhard Richter quando dipingeva, un suo Grau: quel grigio nel quale si potevano misurare il senso di perdutezza dell’uomo di fronte all’immenso e il mistero dell’assenza; l’urgenza di dire un’altra parola e insieme il bisogno di un silenzio a cui tornare.
Ecco, forse il grigio di Richter è la prima immagine, scritta entro il codice della pittura monocroma, che dubita della propria capacità di parola: in questo senso il monocromo di Sonia va oltre Richter: perché di nuovo la Costantini sogna possibile un’assolutezza, pur ripartendo da una soglia d’assoluta, aspra castità. Ma non può leggersi e riconoscersi, il suo lavoro,  per quello che è senza tener conto di come esso prenda le mosse da un luogo mentale che sta oltre quel punto estremo che, dopo Reinhardt, Richter ha toccato. Né può realmente riconoscersi, la pittura della Costantini, senza presumere che essa avverta su di sé, sempre, la fatica della china che le occorrerà, muovendo di lì, risalire.
Al sommo di quella china, Sonia trova infine – e sono ormai anni che dura questa pittura d’intoccabile intensità espressiva – la sua immagine: colma di certezze, e di quasi sfrontata presunzione di bellezza; tetragona, in ogni suo punto, all’esistente, ai suoi turbamenti, alle sue memorie.
È tramata, la sua superficie, da una appena percettibile architettura geometrizzante: ma questo ‘disegno’, quasi un minimo allarme posto sul limite estremo della percettibilità ottica, profonda infine a tal punto nel manto emozionato del colore da non essere altro che un avviso dell’artificiosità tutta mentale della costruzione pittorica: un ultimo spalto opposto alla fruizione dell’opera come pura, sensibilistica invasione di bellezza. Su quella superficie la luce, vero e aspro demone della Costantini, s’incarica, senz’altro appoggio, di erigere e sostenere questi spazi invasi dal silenzio, e come in attesa del tempo lungo della fruizione.  

 


Claudio Cerritelli      | english text
In Volontà di pittura
in Figure Astratte, a cura di G.M. Accame, Edizioni Campisano 2001


Il corpo della luce è il tema di ricerca di Sonia Costantini., questo corpo è indagato sul piano della superficie ma la sua profondità emerge in ogni punto della trama pittorica, come sistema di vibrazioni cromatiche entro cui l’occhio si immerge in un prolungato stato di visibilità. Le strutture geometriche che guidano la totalità percettiva sono
impalpabili, leggere fino al limite della visibilità, esse conducono lo sguardo altrove, oltre la pura investigazione linguistica del colore.  Costantini scioglie ogni paradigma conoscitivo della luce nell’evento della visione, vale a dire nei passaggi segreti che
l’occhio compie per  saggiare il corpo del colore, la compresenza di elementi visibili e invisibili, di ombre impercettibili e pure trasparenze. La pittura diventa un comportamento etico, una misura morale, una pratica che non ammette tradimenti, un sistema di analisi del colore che tuttavia non inaridisce mai in uno sterile tecnicismo ma ha l’ambizione di tradursi  in pensiero poetico. Come può lo sguardo reggere la visione cosmologica del colore, in che modo l’occhio è in grado di sostenere la vastità della superficie? In che modo la pittura può farsi modello di conoscenza dei limiti stessi del dipingere, di questo atto che prolunga il nostro smarrimento di fronte alla vertigine della memoria?

 


Angela Madesani      | english text
In Storie di colore
catalogo della mostra, Palazzo Libera, Villalagarina TN, 2004, Edizioni Nicolodi, Rovereto, TN


Nella pittura di Sonia Costantini è un rapporto dialettico tra luce e colore che solo a uno sguardo veloce può apparire monocromia. Nei suoi dipinti è uno strato cromatico di fondo  sopra il quale viene sovrapposto un leggero stato di colore ad olio, in modo da creare una sorta di armonia. La luce è portatrice di conoscenza di ciò che non è immediatamente visibile. Le sue opere necessitano di attenzione,di pazienza. Come paziente è la sua realizzazione, la sua attesa quotidiana alle tele con una piccola spatola. Il suo è un lavoro rituale e proprio attraverso la ritualità del gesto appare ciò che può essere considerato il “fenomeno” in senso filosofico. I suoi dipinti anche di grandissime dimensioni sono avventure spirituali, come ho già avuto occasione di spiegare. Ogni volta che Costantini dà inizio a un’opera deve lavorarci senza sospensioni sino alla fine. Con lo sguardo attento al lavoro, meticolosa come un miniatore medioevale. I suoi sono tentativi di rispondere a degli interrogativi di matrice esistenziale che ogni giorno la vita ci pone. Interrogativi sulla conoscenza, sulla bellezza come cosa buona, alla maniera dei Greci, sul senso delle cose e del nostro cammino di uomini e donne sulla terra. Vi è un tentativo di giungere alla verità , prima di tutto dell’immagine, preziose icone di luce.
 

Diego Collovini 1994
Paolo Biscottini 1995
Giovanni Accame 1997
Marco Goldin 1997
Fabrizio D'Amico 2001
Cerritelli 2001
Madesani 2004

Giuseppe Panza di Biumo      | english text
Il colore è la luce
In Sonia Costantini - Percorsi del colore 02, edizioni Nicolodi, Rovereto, novembre 2005


Sonia Costantini appartiene al gruppo di artisti che in questi ultimi 25 anni hanno sviluppato una ricerca sulle possibilità espressive  del colore, ricerca creata in solitudine, essendo estranea agli atteggiamenti post moderni, apprezzati da una società priva di volontà di cercare e capire nuove possibilità della condizione umana.
L’arte degli anni 60 e 70 è stata caratterizzata da una prevalente ricerca dell’espressione del pensiero.
La riflessione su questa fondamentale capacità del nostro intelletto che ci avvicina al potere supremo, ha prodotto la scultura e la pittura minimale, l’arte concettuale, l’arte ambientale che esamina il punto centrale dell’inizio della nostra coscienza e della nostra presenza terrestre.
In queste attività artistiche il colore era un elemento complementare non un elemento fondamentale, anche se in alcuni artisti, come Flavin e Judd, assume un valore importante ma sempre in funzione di un’idea che precede la sua esistenza.
Quando si pensa in che cosa consiste “la pittura” si pensa ai suoi colori. E’ la prima cosa che si vede, il “che cosa vuol dire” viene dopo. Stranamente si è sempre pensato a quello che viene dopo e non a quello che si vede per primo. Le così dette “grisaille” non le consideriamo pitture ma disegni più grandi, fatti ad olio, al posto della grafite.
Questa mancanza di interesse per il colore era un vuoto nella storia dell’arte, anche se nei secoli scorsi, prevaleva il racconto o la rappresentazione di un’idea.
Negli anni 60 e all’inizio degli anni settanta gli artisti che hanno usato la luce hanno creato le condizioni affinché una nuova ricerca potesse nascere.
Luce e colore sono due aspetti della medesima cosa. Il colore è una vibrazione luminosa riflessa da un oggetto che assorbe le altre vibrazioni.
Fare arte con il colore non consiste nel dipingere con il pennello una tela, in questo modo si ottengono solo dei campioni per una ditta che produce vernici. Lo scopo consiste nel trovare il modo di far vibrare la radiazione luminosa, trasformare il colore in luce, luce colorata. Separare la materialità della materia da un’idea, quindi, farla diventare arte.
E’ la ricerca che riesce a Sonia Costantini, assieme a pochi altri. Ogni artista deve trovare la tecnica appropriata per ottenere questo scopo. Una tecnica che deve essere individuata e diversa dagli altri, solo in questo modo l’artista crea un’opera con il marchio della propria personalità.
La tecnica usata dalla Costantini consiste nel sovrapporre ad una superficie opaca una rete di piccole macchie di colore con superficie riflettente. In questo modo si raggiunge un equilibrio tra riflessione ed assorbimento della vibrazione luminosa che è particolarmente attraente.
Il dosaggio tra spazi neutri di fondo ed i punti luminosi in superficie è il difficile equilibrio che l’artista deve raggiungere. Per questa ragione i suoi quadri sono sensibili a come sono illuminati, è necessario evitare che l’uno o l’altro elemento del quadro prevalga.
E’ una caratteristica di quest’arte di essere sensibile al modo in cui si illumina e da quale punto di incidenza della luce si guarda. Il variare dell’intensità luminosa trasforma il quadro, esprime emozioni diverse, stati d’animo imprevisti, penetrando dentro di noi ci fa scoprire un’interiorità che non conoscevamo.
La Costantini raggiunge gli obiettivi che quest’arte vuole realizzare, la pone in una posizione eminente in un contesto internazionale.
La società contemporanea predilige il comprensibile a prima vista, il facile, oppure il sensazionale, il pugno nello stomaco per una cultura che ha perso il piacere sublime della riflessione e della contemplazione.
Fino a quando?

APPENDICE
I quadri di Sonia Costantini non sono riproducibili. E’ una situazione comune a tutte le opere d’arte dove il colore è il tema ultimo ed esclusivo.
La fotografia non può riprodurre una realtà che è al limite della percezione. Sono opere fatte con la luce, la riflessione o il suo assorbimento. Una qualità poco visibile della superficie del quadro, che solo un occhio attento può vedere. E’ un’arte che fa evolvere la nostra capacità di capire. Ogni evoluzione è una nuova esperienza, richiede uno sforzo. Chi è abituato al pugno nello stomaco del sensazionale ha perso la capacità di vivere quest’arte, e tutto quanto è evoluzione intellettuale e civile dell’uomo.
La sua massima dignità. La sua unica giustificazione per esistere.

 


Claudio Cerritelli      | english text
Libertà del pensiero-luce
In Sonia Costantini - Percorsi del colore 02, edizioni Nicolodi, Rovereto, novembre 2005


Costruire il colore era il titolo di una mostra con cui Sonia Costantini presentava il suo lavoro, circa dieci anni fa a Milano,  con un gruppo di dipinti sospesi sulle ombre e sulle aurore della luce, su valori pittorici calibrati nella visione incorruttibile del monocromo, eterna ossessione del suo fare pittura ai limiti del visibile.
Sviluppando l’idea di quelle opere sostenute dalla purezza della struttura geometrica l’artista ha affrontato la fisicità della pittura con lenti movimenti di rivelazione della luce, non più ancorati alla certezza di uno spazio misurabile ma al pensiero inafferrabile del colore che va incontro al suo infinito svelarsi.
Attraverso il processo di purificazione della superficie da ogni fantasma strutturale oggi il lavoro di Costantini ha dissolto le modalità della geometria nell’evento della luce che esce dal colore, da essa emana la propria essenza  con leggeri scarti, per via di trasparenze impalpabili che ne esaltano il chiarore mutevole della leggerezza.
In questo viaggio esclusivo l’artista ha tolto il superfluo, la soglia del colore si sostiene da sé, è campo di vibrazioni sottese alle stesure sempre diverse del pigmento: non c’è limite alla natura specifica del suo farsi canto puro, emozione mentale del visibile, immaginazione che nasce dalla libertà di sprofondare nella percezione dell’invisibile.
La tensione verso le latitudini del monocromo si iscrive nella storia della pittura aniconica del ‘900, ha i suoi fondamenti nella volontà di sintesi degli elementi costitutivi del dipingere, tiene dunque conto delle radici del suprematismo astratto e del costruttivismo pittorico che hanno spinto l’avanguardia storica verso una profonda critica del concetto di rappresentazione.
Costantini si sente partecipe di questa tradizione, non è tuttavia interessata al grado zero della pittura nella versione radicale del minimalismo, ama piuttosto sentire l’astratto come idea congiunta al vissuto,  non chiusa nella misura tautologica del codice cromatico ma aperta a ulteriori sensi: evocazioni dell’altrove collegate alle inquietudini dell’esistenza.
In questa prospettiva, la conoscenza analitica della superficie dipinta è l’esperienza preliminare per l’esercizio rituale del gesto che ferma il tempo, sospende lo spazio nel proprio interno fluire, lo avverte come esercizio vitale,  visione interiore che agisce e riflette sulla luce come luogo di meditazione.
Il colore costringe l’artista ad adottare  procedimenti diversi, a muovere la materia secondo soluzioni differenti nella stesura e nell’esecuzione, a costruire un progetto pittorico che sollecita diversi livelli di lettura e di controllo dell’immagine: l’essenza della pittura sta nello splendore di questa profondità.
L’approfondimento del processo tecnico modifica il modo stesso di vedere il colore, di immaginarlo come spazio che contiene altri spazi di contemplazione, dentro i quali l’artista si protende senza averne la totale comprensione. Del resto, la pittura di Costantini si manifesta per apparizioni che derivano dalla forza di concentrazione del colore che illumina lo spazio, non può esservi altra cognizione che quella che si mostra nel divenire soggettivo del colore, nell’idea rivelata sulla superficie dipinta, dentro le stratificazioni che rivelano le sembianze della luce.
Tutto è consentito solo a partire dall’intelligenza della mano, dalla sua specifica attitudine a guidare la disciplina del dipingere come esperienza diretta della materia, sensibilità della mano che pensa il colore, lo redime dal mondo e lo immette in una totalità temporale che non ha confini.
 Non esiste –come avviene in altri artisti del monocromo- uso del rullo o diffusione meccanica del colore come dimensione anonima del fare, in quanto affermazione del carattere impersonale dell’atto pittorico. Anzi, l’esigenza di garantire l’originarietà del colore dipende dal carattere individuale dell’esecuzione, dall’affinamento tecnico del processo di lavoro e, soprattutto, da una particolare tensione psico-fisica nel predisporsi all’opera come scambio energetico tra l’artista e la superficie, tra la ragione e l’emozione di fronte alla tela su cui agire.  
Per ottenere la trasparenza del colore Costantini opera una prima stesura ad acqua, quindi interviene con tempera acrilica e pigmenti a olio trattati con varie intensità e vibrazioni dovute alle differenti pressioni della spatola. Nella concentrazione dell’esercizio manuale sta già il modo di pensare la superficie, di strutturare le minime variazioni che dal centro ai margini determinano la visione come equilibrio di momenti successivi e necessari a fissare il fenomeno inesauribile della luce.  
Come avviene spesso nelle esperienze che esplorano le possibilità di un solo colore anche in questo caso il piano ideativo e quello operativo finiscono per coincidere, non possono agire in tempi diversi, l’uno successivo all’altro, essi coincidono nello stesso processo di elaborazione.
 Possedere la tecnica è per Costantini già determinare la visione della pittura, essere nello spazio dell’esistenza con gli elementi necessari alla sua affermazione: pensare la pittura è dunque pensare la vita del colore, avere in mente il suo processo trasfigurante, immaginarla come unità indivisibile, genesi di un percorso coerente dal primo all’ultimo gesto.
Questa identità è perseguita nel segno di un comportamento non solo estetico ma anche etico, in quanto il valore della pittura è un impegno conoscitivo che dall’esperienza individuale si estende verso un modello di comunicazione universale. Si realizza dunque attraverso gli occhi di tutti coloro che potranno svelarne gli spazi reconditi, i respiri e le pause, i toni e le variazioni sospese in un tempo di lettura infinito.
In ogni tocco del colore si intuisce il vibrare del polso che costruisce la texture pittorica come struttura irripetibile del divenire della luce, attraverso passaggi che non sono programmabili ma verificabili volta per volta, valutando la capacità di portare la ricerca al massimo grado di amplificazione delle tensioni immaginative.
Costantini parla per i dipinti recenti di sfocamento del colore verso l’esterno, allontana la preoccupazione compositiva ed esalta la trasparenza della superficie come attimo di una totalità non misurabile, campo di continua vibrazione, luminosità espansiva fatta di sfioramenti e bagliori. Ciò che avviene in ogni opera è questione di leggerezze e di pesi che dipendono dalle mescolanze del colore, di toni freddi che arretrano e di toni caldi che avanzano seguendo il principio delle mutazioni alterne, differenze che la superficie trattiene come pulsazioni appena visibili.
Queste sono le qualità che l’artista cerca attraverso una messa a punto della tecnica che sfida l’essenza della luce, indagando le conoscenze specifiche del rosso cadmio e del bianco, del grigio-viola e del rosa, del verde-azzurro e del giallo, dominanti cromatiche dove il farsi corpo dell’atto percettivo deriva da  sintesi di luce difficilmente riscontrabili nella realtà.
Queste congiunzioni inattese creano stati di stupore mai riducibili alla pratica concettuale del dipingere, è sempre la fisicità del pigmento a far sentire l’invenzione della luce che trasale da un punto all’altro  generando spazi che trascendono se stessi, icone di puro colore dove la percezione umana sfiora la dimensione  del sacro.
Il colore-luce è in tal senso archetipo di una spazialità a cui apparteniamo come origine e come destino, come dimora dello sguardo allo stato puro, luogo di riconoscimento della distanza dal mondo delle apparenze, architettura della mente che ha dissolto i limiti segnati dalla realtà.
Restia a considerare le verosimiglianze della rappresentazione la pittura di Costantini resiste anche alle retoriche della pittura astratta che quantifica le regole del linguaggio nel registro convenzionale della geometria, degli equilibri cromatici e delle simmetrie lineari. Come se l’iconografia astratta fosse garanzia di un autentico modo di pensare la forma come interrogazione e ascolto delle sue segrete sonorità.   
Se consideriamo, infine, quanta importanza può assumere il luogo espositivo e l’incidenza della luce ambientale che ne condiziona i tempi di percezione, non possiamo non sottolineare la difficoltà di lettura del processo di interazione tra luce dipinta e luce atmosferica, tra superficie e parete, tra perimetro del colore e sua estensione nello spazio circostante.  
Ancor più imprendibile è la qualità del colore al cospetto della sua riproducibilità fotografica, in quanto la complessa identità della superficie dipinta - che ad occhio nudo si carica di emozioni e umori soggettivi- in rapporto all’occhio meccanico della fotografia subisce  alterazioni ancor più evidenti rispetto alla sua complessa identità.
Questo tradimento è inevitabile in un tipo di pittura basata sui toni inesplicabili del colore-luce, l’unica possibilità  è rinunciare all’illusione che l’opera possa essere riprodotta, essendo la sua natura irripetibile e la sua qualità visiva difficile da emulare.
Questo disagio svanisce solo accettando quell’autentico rapporto che la pittura oggi chiede al lettore che voglia dialogare con questo spazio di libertà ancora possibile, proprio come avviene di fronte alla pittura di Sonia Costantini:   visione di ciò che non si vede, svelamento di una realtà che il colore sollecita nella materia irreversibile e assoluta della luce.

 


Giorgio Bonomi      | english text
In Documenti di Pittura 2, cat. della mostra
bollettino n. 179, Galleria Il Milione, Milano, 2008


Sonia Costantini usa la spatola, di piccole dimensioni, per dare il colore, il quale dapprima è ad acqua, quindi “volatile”, “etereo”, e richiede molte velature, poi è ad olio, perciò più “corposo”, e tale che va a “proteggere”, il sottostante più lieve e leggero.
Costantini ha sempre usato come primo “materiale”, per così dire, la “luce”: una luce che può essere diffusa, limpida, intensa, sempre “chiara”; anche quando il colore usato è più scuro il tono luminoso resta nitido. A volte il colore è “metallico”, ma non ha facoltà “riflettenti”, infatti il colore della Costantini ha una forza centripeta, che attira intensamente nel suo profondo, oltre la superficie, gli sguardi e i pensieri degli osservatori, e non centrifuga, cioè tale che esce da sé per “depositarsi” sull’altro.
Le sue profonde superfici dipinte richiedono un tempo lento di percezione, per poter cogliere tutte le increspature, le sovrapposizioni, i tremolii che sono della materia (il colore) e che provocano una cromia e una luminosità complessa; il tempo di percezione  dilatato è una sorta  di “risarcimento” che l’osservatore deve alla fatica dell’artista i cui tempi di esecuzione sono altrettanto lenti.
Le realizzazioni cromatiche delle opere rigorosamente monocrome sono plurime con colori che vanno dal rosso al viola cobalto, dal bianco al Magenta, dal grigio all’azzurro, i quali colori – la loro origine è nel patrimonio immaginifico dell’artista, che deriva da una memoria cosciente storico-artistica, oppure da un inconscio visivo sedimentato con le esperienze – costituiscono, a riprova dell’autoreferenzialità di questa  arte, i titoli stessi delle opere.

 

Panza di Biumo 2005
Cerritelli 2005
Bonomi 2008

Federico Sardella 

Armonie per accordo - una conversazione con Sonia Costantini
in Sonia Costantini, cat. della mostra
Palazzo Te – Ala Napoleonica, Mantova, 2010 , Ed. Tre Lune, Mantova


“Davanti alle tele di Sonia Costantini si deve sostare a lungo, e in silenzio: condizione necessaria del vedere. Chiedono dunque molto, queste tele, a chi le accosti: quello che di norma la pittura non pretende per sé. E anche se è d’altra parte vero che tutta la vera pittura ha bisogno di allontanare da sé l’ingombro e il rumore dell’esistente per farsi davvero ascoltare, questa verità, condizionante nel caso di Sonia, ne fa un’eccezione profondamente anomala rispetto ai tempi che vive. Inattuale, dunque, per questo, prima e più che per la sola presunta inattualità dell’esercizio, oggi, del mestiere della pittura, e della pittura monocroma in particolare”. Queste parole di Fabrizio D’Amico, tratte da uno scritto del 2001, vanno a chiarire puntualmente il tipo di approccio che il lavoro di Sonia Costantini pretende e offrono un interessante spunto di riflessione riguardo all’inattualità del silenzio. Inattuale ed innaturale oggi più che mai, il silenzio è qualcosa che si è perduto e che è stato allontanato, messo al bando dalla società.

Dal silenzio oggi si fugge, chi sa perché poi, e l’uso massiccio dell’iPod, per fare un esempio (banale forse, ma attuale), che ci riempie di suoni come avessimo bisogno di una continua farcitura, mi pare sia una tragica ed ulteriore conferma di questo desiderio di fuga dall’assenza di suoni. Di conseguenza, ciò che maggiormente distingue l’oggi, e lo scrivo a malincuore, è il rumore. Già nella metà degli anni Trenta lo rileva Max Picard che, nel suo libro Il mondo del silenzio (1936), afferma che “il frastuono ha occupato tutto e la Terra sembra ormai appartenergli; non esiste un’unità della Terra grazie allo spirito, alla religione, all’umanità o alla politica, ma esiste l’unità della Terra nel rumore, il quale connette tutti gli uomini e tutte le cose”. Ed ancora ci dice che “l’uomo che ha perso il silenzio non ha perso solamente una delle sue qualità umane: tutta la sua struttura ne è stata alterata”. Il lavoro di Sonia Costantini, come si è detto, richiede mutismo e contemplazione: condizioni che permettono a chi guarda di ascoltare il quadro e di dedicarsi in via esclusiva alla sua inspiegabile, stimolante e accordata presenza. Detto questo, non posso fare a meno di domandarmi se il lavoro di Sonia Costantini, visto quanto chiede per essere goduto, è, a sua volta, silenzioso?

Certo è che il tutto inizia nel silenzio di un telaio, scelto accuratamente e appositamente realizzato a soddisfare le esigenze dell’artista. Il telaio è la corporatura, l’ossatura del dipinto; è un sostegno solido, dal giusto spessore, utile e funzionale, che diventa esso stesso figura. Il formato, la dimensione, il colore che poi andrà a vestire questa struttura, hanno una loro coerenza: tutto è deciso tenendo conto del fatto che diversi elementi – il telaio, la tela, la pittura – devono convivere tra loro, armonicamente.  

Il mio intervento sulla tela, che quasi corrisponde ad una scrittura, lo penso in base al tipo di tessuto sul quale opero. Adopero dei lini a tessitura perfetta, dei cotoni particolari, come l’Olona americano dove su una faccia predomina l’ordito e sull’altra vince la trama; questa specifica caratteristica porta la tela ed essere sia supporto neutro che indicatrice di direzioni precise e determinati. Ho bisogno che nel dipinto ci sia un percorso (il percorso del filo) che mi aiuti a dare vita al movimento ondulatorio della mano che sviluppandosi e propagandosi va a saturare, anche se mai totalmente, la superficie a mia disposizione. Se il filo, la trama, è in contrapposizione a quanto io vado dipingendo, allora mi crea dei problemi: devo avere la certezza, per avviare un lavoro, che trama ed ordito siano consequenziali a quanto vado facendo.

I miei dipinti, pur somigliandosi ad avendo una comune genesi, differiscono molto l’uno dall’altro.  Dipingo appoggiando con la punta della spatola il colore sulla tela. Uso una semplice spatola, che io stessa ho ridotto sino a farle avere una forma pressoché quadrata, adatta a raccogliere il colore e depositarlo sulla tela grazie ad un gesto che prevede una mezza rotazione del polso. Appoggio il colore sulla tela, ne osservo lo spessore e la presenza, per poi scioglierlo e farlo sbuffare via sino ad ottenere l’effetto che cerco. La superficie di queste tele esposte a Palazzo Te, per capirci, è resa grazie a migliaia e migliaia di spatolate…

In questa sommaria descrizione della costruzione dei tuoi dipinti, abbiamo accennato al telaio, alla tela e alla superficie dipinta ma, a mio avviso, abbiamo tralasciato una componente fondamentale e centrale del tuo fare: ciò che sta in mezzo, tra la tela e la pittura data a spatola: il fondo. Il colore che si intravede sul risvolto della tela, in queste opere, è il colore del fondo?

Si, è esatto. Il fondo è reso grazie ad una stesura a velature, piatta, di colore acrilico dato ripetutamente. Il colore che uso è molto diluito, quasi acquoso, e risponde ad una esigenza di costruzione dell’opera che in questa fase embrionale già ne determina il risultato, creando l’anima del dipinto, delineando la sua idea più alta e sospesa. Questa traccia, il fondo, deve essere il più possibile luminosa perché un corpo opaco, la pittura ad olio, andrà a comprimere questa luce che ho impresso per farla solo appena trasparire in piccoli punti. A volte penso che i miei quadri rendano l’effetto di un tessuto guardato in controluce, attraverso il quale la luce filtra, rimanendo però drasticamente compressa, come fosse prigioniera.

A me interessa maggiormente il corpo che riveste il fondo, che, nella mia concezione, corrisponde al pieno, e che è ottenuto a pennello, in modo classico. Su questo, dando una rotondità a ciò che non ha corpo, dandogli volume, intervengo a spatola con il colore ad olio, da destra verso sinistra. Il colore, per me, altro non è che una luce che acquista corpo. Il colore come pasta riesce ad essere in continuo conflitto con se stesso e a dare continuamente visioni differenti di sé.

Come ti muovi all’interno della tela, nello spazio che hai a disposizione? Come procedi nel celare il fondo acquoso e luminoso da cui tutto nasce?

Il mio muovermi all’interno della tela, con la spatola, mi porta a ripercorrere tutte le tappe di costruzione effettiva del tessuto che accoglie la mia pittura. Dipingo senza correre in giro per la superficie, ma procedo come se la dovessi tessere io stessa, dandogli forma e sostanza; come se partissi da due fili che inizio ad intrecciare seguendo un percorso specifico, naturale per me, inconsapevolmente imposto. Misuro orizzontalmente lo spazio, la mano percorre la superficie come dovesse semplicemente accarezzare l’aria, compiendo un gesto primordiale, od orientale se vuoi, che rasenta una ripetizione ossessiva, ostinata e musicale. Il fondo, acquoso e sommerso, è dato con il medesimo colore che vivifica la superficie, ma con un tono più basso; essendo poco più chiaro e ricco di luminescenze, questo si proietta attraverso le maglie sature ed opache della stesura a spatola, e lì lo puoi individuare.

Torno a domandarmi, e a domandarti, se è una pittura silenziosa, o, per lo meno, quieta, la tua?

Le mie tele, per assurdo, sono medaglie con due facce: le osservi e percepisci un colore tranquillo in apparenza, che sa trasmettere quiete e serenità. Ma in realtà ciò che intuisci inizialmente non corrisponde al vero. L’occhio di chi guarda i miei quadri è talmente sollecitato che si stanca ad osservarli, saltellando qua e là imbizzarrito da continue variazioni e stordito da una sorta di eco cromatica. La mia pittura, di conseguenza, non è né quieta né silenziosa ma piuttosto abitata e agitata da mille brividi, distinta da attriti continui e dalla totale mancanza di silenzio al suo interno. I miei quadri, questi corpi apparentemente statici e fermi, in realtà non danno la possibilità di essere percepiti come tali. Ciò che li rende vivi è la loro capacità di essere individuati come corpi in movimento, nel momento stesso in cui sono colti, insolenti come sono, impongono al fruitore di stare sull’attenti, lo chiamano all’ordine imponendogli una visione tutto altro che ferma o statica. Perché la pittura si muove, e ci fa muovere. Il pensiero di chi guarda è coinvolto, suo malgrado. Il dubbio s’insinua e mina la certezza di una tela con il suo bel colore, che ti assorbe anche, ma che porta a domandarsi: sto vedendo un colore o sto vedendo uno spazio?

Cerco di portare lo spettatore a pensare che quanto vede non è quello di cui può essere certo, semmai il contrario. Tutto ciò che è lineare e sicuro, che ci appaga nel nostro desiderio inconscio di stabilità, tutto questo, in realtà nasconde la sua faccia. I miei quadri, infatti, sono immagini imprendibili: non li puoi cogliere appieno, vincolati da infiniti istanti irripetibili.

Con quale criterio hai scelto e scegli i colori che utilizzi?

Il colore deve esprimere tutto quello che io ho pensato e desiderato iniziando a realizzare l’opera. Ho sperimentato, all’inizio del mio percorso, tre colori: il bianco, il giallo e il rosso, alla ricerca, come ero, della massima luminosità possibile, con un atteggiamento quasi ideologico. Ad un certo punto mi sono sentita di usare qualunque colore, scoprendo e verificando che qualsiasi colore funziona, forse proprio nel momento in cui ho ottimizzato la mia tecnica.

La tecnica che adoperi sembra essere il frutto di anni di lavoro e ottenuta grazie ad una consapevolezza piena dei mezzi e delle modalità del dipingere. Come ci sei arrivata?

Col tempo si cambia, si evolve, e anche i luoghi che frequentiamo, nei quali viviamo, influenzano il nostro percorso. Negli anni, passando di studio in studio, ho visto i colori che sceglievo cambiare, anche in base al luogo specifico in cui operavo e alle luci che entravano in quegli spazi. Tali cambiamenti hanno anche contribuito allo sviluppo del mio lavoro: sono convinta che il contesto modifica la nostra visione delle cose e il nostro pensiero. In questo studio dove ci troviamo ora, adesso che mi ci fai pensare, mi sono liberata completamente di alcune costrizioni e grazie all’ampiezza di questi spazi ho avuto la possibilità di creare opere di grandi dimensioni. Questa condizione mi permette ora di affrontare qualsivoglia colore, perché ho la possibilità di scegliere la dimensione esatta che gli consentirà di esprimersi al massimo.  

Ci sono colori che funzionano, per te, esclusivamente in formati piccoli o solo su formati grandi?

Forse i colori legati alla terra funzionano meno nelle grandi dimensioni. Li uso poco e mi interessano meno. Per un breve periodo ho utilizzato colori che vedevo nella pubblicità, piuttosto chiassosi, erano colori fluorescenti, turchesi molto accesi, dei Magenta e dei gialli acidi che però ho subito abbandonato: non hanno saputo esprimere quello che io volevo e cercavo.
Amo tutti i rossi possibili e i colori freddi, come gli azzurri e i verdi. I verdi, ad esempio, li sto scoprendo in questi ultimi due anni, perché in passato li ho frequentati raramente.

I verdi che utilizzi, i colori che scegli più in generale, sono legati a qualche cosa di altro oltre il loro essere colori che rappresentano se stessi? Sono riconducibili, che so, ad un panneggio di uno specifico dipinto o legati ad una qualche simbologia riconosciuta?

Quello che faccio nasce liberamente e non ho una visione programmatica del colore. Sono stata stimolata ed influenzata da letture, ascolti musicali ed incontri, e sicuramente da alcuni momenti della storia dell’arte che ho amato moltissimo, come Piero Della Francesca, il manierismo, Pontormo, Rosso Fiorentino, gli impressionisti, Claude Monet, Georges Seurat, Henri Matisse e Vincent van Gogh, l’espressionismo astratto, Mark Rothko, Barnett Newman, Ad Rainhardt. Ci sono cose, situazioni, saperi ed atmosfere che ti entrano dentro, che fanno parte di te e che hai assorbito. Ma, nel mio lavoro, non c’è mai un citazionismo voluto.

Anni fa ho sperimentato la tempera all’uovo e utilizzato ogni sorta di pigmento, prevalentemente su piccoli formati. Ora uso solo colori industriali: sono più efficaci, offrono maggior sicurezza e in nessun caso si modificano, visto che la mia è una ricerca basata anche sulla persistenza del colore. I colori che uso non sono mai ripetibili, sono delle miscele, e ogni mia tela è distinta da un codice a più cifre dettate dal momento in cui l’opera è stata dipinta, da quando è stata iniziata e portata a termine… I titoli sono dati dai colori stessi che abitano il quadro, nel caso specifico di questa mostra a Palazzo Te, infatti, abbiamo a che fare con Rosa di Avignone, Terra Verde, Azzurro Cenerino e Blu Reale. In nessun caso desidero influenzare o deviare la visione ed il tragitto mentale di chi guarda. Non voglio dare alcuna indicazione altra che non sia il colore, anche se nelle opere che dipingo, lavorando con lentezza e tracciando segni che si intersecano e si sedimentano, il mio vissuto entra a far parte del quadro, influenzandone profondamente l’andamento.

Come ci accorgiamo che il tuo vissuto va a contaminare l’apparente assolutezza delle tue opere?

Questa è una domanda difficile, alla quale, tempo fa, Claudio Ceritelli ha tentato di rispondere in uno scritto dove spiegava in modo plausibile come il mio umore si riflettesse sulla tela forse dal modo in cui do il colore con la spatola, che a volte è uno sfiorare la sua superficie, altre un premere su di essa, e altre ancora un graffiare o un austero depositare…

I tuoi quadri, a questo punto possiamo affermarlo, sono legati al tuo vissuto e alla tua quotidianità molto più di quanto non dicano?

Nel mio lavoro non c’è nulla di analitico. Nelle mie opere c’è ciò che ho vissuto e ciò che vivo. Attraverso il colore e la luce, prima di tutto, trasmetto una parte di me e poi, anche, uno sguardo altro, indirizzato verso un altrove che per me è inspiegabile, ma che riesco ad esprimere perché io stessa possa goderne. Il mio lavoro prevede un incessante rispecchiarsi dentro l’immagine cromatica, permettendo continui affioramenti di tensioni sopite.

L’arte di Sonia Costantini, come diceva Marcel Proust della vera arte, non sa che farsene di tanti proclami e si compie nel silenzio. La sua è una recherche, tesa a sviscerare l’Io superficiale, l’Io interiore e l’Io profondo, che nasce da una perenne condizione di dubbio circa la realtà del mondo e la possibilità che abbiamo di coglierne i dati oggettivi. L’Io che Sonia vede proiettato nelle sue tele è una inesauribile fonte di ricchezza e di sapere e solo una percezione grossolana e frettolosa dei suoi lavori porta chi ne gode a porre l’attenzione sull'oggetto, quando tutto in realtà è dettato dallo spirito: dalla vittoria dello spirito sull’opacità della materia pittorica (di nuovo Proust) che non descrive le cose limitandosi a duplicarle, ma ne dice le segrete corrispondenze, il senso ultimo e la loro lieve risonanza.



Giuseppe Panza di Biumo      | english text
L’arte di Sonia Costantini e la Collezione Panza
In Sonia Costantini. Il colore dentro, cat. della mostra LAC – Lagorio Arte Contemporanea, Brescia, Ed. LAC, 2010


Conosco il suo lavoro da alcuni anni e ho visto un costante sviluppo e la maturazione della sua tecnica verso una più radicale composizione astratta, eliminando residui formalismi e migliorando il suo metodo di elaborazione della luce  che rende il lavoro così affascinante.
La tecnica usata dall’artista consiste di una  stesura di fondo di un colore acrilico, opaco, con sovrapposte delle macchie dello stesso colore ma ad olio e quindi lucide e riflettenti.
Questo amalgama di assorbimento e di riflessione della luce crea effetti magici e sorprendenti.
Per vedere il risultato voluto dall’artista è necessario cercare il punto di visione idoneo allo scopo.
L’osservatore deve spostarsi davanti al quadro fino a quando la superficie del quadro si trasforma.
A prima vista può sembrare una somma di piccole superfici riflettenti che provocano la scomparsa del colore, spostandosi al lato opposto dell’inclinazione dell’illuminazione avviene una radicale trasformazione.
Il colore, da una riflessione luminosa senza corpo e indistinta, diventa qualcosa  di sostanziale ma intensamente dinamica, da una condizione statica a qualcosa che diviene.
Il colore diventa forte, potente, quasi aggressivo e contemporaneamente inconsistente, una massa senza massa.
Da un punto di vista scientifico la luce è un’onda, non è materia, è solo energia, ma quando arriva a contatto con noi e le cose, ci riscalda, si trasforma in una sostanza corpuscolare, con una piccolissima massa compensata da una grande quantità di radiazione che la rende una cosa necessaria per la vita, la più necessaria.
Sonia Costantini ha compiuto un miracolo, rendere evidente questa invisibile duplice realtà della luce, due realtà completamente diverse, che dovrebbero distruggersi  reciprocamente invece di diventare una sostanza che ci procura la vita.
Un sorprendente fenomeno scientifico scoperto dopo secoli di ricerche, dall’artista capito e realizzato in via intuitiva.
Come un’onda diventi un corpuscolo è un fenomeno naturale assolutamente incomprensibile, sono due opposti.
La superficie opaca assorbe la luce nel momento in cui diventa materia, la superficie lucida la riflette conservando la sua natura di onda che ha attraversato gli spazi siderali senza trasformarsi.
Per questa stranissima realtà quotidiana sento un inesauribile desiderio di vedere i quadri di Sonia.


 

Gabriella Belli      | english text
Una via interiore
In Sonia Costantini. Il colore dentro cat. della mostra LAC – Lagorio Arte Contemporanea, Brescia, Ed. LAC, 2010


I suoi quadri sono all’apparenza di un colore unico.
Con queste parole Giuseppe Panza di Biumo, forse il più importante collezionista internazionale di pittura monocroma, molti anni fa m’introduceva alla lettura di un ciclo di opere dipinte nel 1975 da Ruth Ann Fredenthal, un’artista americana di valore, oggi ancora non molto nota in Italia, maestra  appunto di quest’arte sofisticatissima. La chiave di lettura è qui, nell’apparente ovvietà di questa lucida affermazione: parrebbe logico ritenere, infatti, che la definizione di pittura monocroma possa essere data con maggiore facilità attraverso la sottrazione dei significati. La pittura monocroma non è pittura di figura, non è astrazione gestuale, non è puro colore dato sulla tela, non è superficie bidimensionale, non è solo materia, non è azzeramento del significato. Ma che cosa è dunque? Per contrappasso, la sua natura si potrebbe definire come astrazione radicale, luce, profondità, vibrazione cromatica, molteplicità di significati, insomma complessità. Avvicinare criticamente l’opera di Sonia Costantini richiede lo stesso punto di vista, ovvero lo stesso esercizio di messa a fuoco di un’emozionalità visiva e spirituale, capace di offrire preziose chiavi di lettura alla sua ricerca, anch’essa complessa e talvolta perfino ermetica alla visione dei più. Quando si rimane per un lasso di tempo che non può essere troppo breve- come suggerisce Fabrizio D’Amico-  davanti ad un quadro di Sonia Costantini, il nostro background culturale e semantico ci indica la strada per situare e contestualizzare il suo lavoro nell’alveo di quella linea di radicalismo astratto, monocromo appunto, che ha percorso tutto il ‘900, e che permette ora un’operazione storico-critica assai utile alla collocazione del suo operare dentro l’ambito della ricerca internazionale. Va altresì detto che l’appartenenza certa di Sonia Costantini ad una precisa classe di sperimentatori non alleggerisce di responsabilità il giudizio critico, ma semmai ne allarga l’orizzonte secondo una visione diacronica e sincronica insieme, in grado di definire con maggiore approssimazione i tasselli di quel grande puzzle della pittura contemporanea cui ella di fatto appartiene. Il rimarcare che la sua linea di ricerca si situa dentro la categoria della pittura- genere ovviamente sempre attuale nel vasto campo dell’arte, ma  certamente scosso lungo tutto il XX Secolo da alterne vicende che ne hanno inevitabilmente condizionato il destino e la fortuna- mi pare assai importante per delineare il focus del ragionamento critico e riflettere sulla sua appartenenza culturale. Quando si ragiona attorno alla scelta linguistica ed espressiva di un artista bisognerebbe a mio avviso riposizionare tale scelta all’interno di una biografia, che molto spesso può rivelare occasionalità particolari, che hanno germinato nella coscienza individuale propensioni e vocazioni. Il caso di Sonia Costantini avvalora questa tesi: l’appartenenza ad un contesto culturale come quello mantovano, denso di arte e propenso ad uno status di alto lignaggio della pittura, praticata non in maniera episodica, ma espressione di una domanda cogente, che proveniva da una delle più significative avventure del collezionismo europeo di tutti i tempi, e poi quella vicinanza fisica e soprattutto culturale con l’esperienza della pittura analitica italiana degli anni Settanta, di cui scrive sempre la critica riferendosi al lavoro della Costantini, parlando in particolare dell’opera di Olivieri, Aricò, Griffa, Verna, Battaglia, Pinelli, artisti cui sicuramente la pittrice mantovana guarda e che in parte segue al pari di una bussola per orientarsi nel vasto campo della ricerca sperimentale, appaiono come due cerniere che delimitano la sua ottima rete di relazioni e i suoi modelli  culturali quando, proprio verso i primi anni Ottanta, il suo lavoro comincia a definirsi come professione, mestiere, bisogno esistenziale primario, cui dedicare tutta la propria vita e attenzione. Eppure, altre esperienze vanno di certo riportate in campo per comprendere l’esegesi della pittura monocroma di Sonia, esperienze più lontane, ma che al pari di quelle sopra indicate, filtrano addirittura con maggiore peso nella sua personalissima interpretazione del fare pittura.  


Tutti gli altri sono allievi
Senza scomodare Kasimir Malevic, che nel 1918 espone Quadrato bianco su fondo bianco, forse il massimo esempio di radicale rifiuto del segno di tutti i tempi, così come lo stesso Malevic ci spiega: ”Appena rivolgiamo gli strumenti della nostra intelligenza verso gli oggetti del mondo materiale, questi si rompono; il punto più alto dell’intelligenza, il più profondo, il più vasto, il più lontano è la rottura”, o, ancora, certo azzeramento di senso, che deriva dalle poetiche dadaiste, in primis dalle sperimentazioni di Duchamp e dalla sua ferma volontà di sostituire la pittura-pittura con la pittura-idea, è alla pittura nata in America nel secondo dopoguerra che si deve sicuramente guardare per comprendere il percorso delle peripezie monocrome di Sonia Costantini. Tra gli altri, giganti del peso dello svizzero migrato negli USA Joseph Albers, del lettone Marc Rothko o del newyorkese Barnett Newmann, due nomi sembrano essere particolarmente interessanti per la loro rifrangenza sul lavoro dell’artista mantovana.
Da un lato c’è sicuramente Ad Reinhardt e la sua pittura monocroma subliminale, dall’altro Robert Ryman, con le sue tele bianche, nuove realtà del mondo.  
Classe 1913, Ad Reinhardt tra le due grandi guerre mondiali sperimenta in pittura la ricerca di una via tutta americana, capace di esprimere valori identitari, che liberino la creatività dall’influenza europea. Fin dall’inizio rivela la sua propensione per una pittura astratta segnica, per certi versi in debito con l’arte decorativa indiana e d’impronta anche un po’orientale. Più vicino al Color Field Painting di Newmann, Rothko e Still, nella sua ricerca egli agisce per sottrazione, eliminando via via immagine, disegno e infine il colore, aspirando così all’assoluto in pittura: “La bella arte- scrive nel 1957-  può essere definita solo esclusiva, negativa, assoluta e senza tempo”.
I suoi quadri non contengono una ricerca che tende a quello che lui stesso ironicamente definiva l’assurdo trascendentale degli espressionisti astratti, ma certamente l’assoluta purezza raggiunta dalla sua pittura, li trasforma in vere e proprie icone di quella non oggettività, rarefatta ed essenziale, che sarà uno degli elementi più rilevanti che transiteranno dalla Scuola di New York alla stagione minimalista.
Ma quello che qui c’interessa riportare al centro della riflessione a proposito dei modelli culturali che hanno influenzato la storia della pittura monocroma europea, è il “caso Reinhardt”,  così come visto da Barbara Rose nel suo fondamentale volume Paradiso americano. Scrive infatti la Rose:  “non c’è dubbio che la sua sia arte classica (con sfumature mistiche forse) e non c’è dubbio che sia astratta e più precisamente pittura astratta”. Secondo queste annotazioni, dunque, Ad Reinhardt nella riduzione sistematica di ogni elemento oggettuale, si prefigura una simmetria classica (il formato quadrato delle sue tele  è anch’esso prova di questa tesi), cui fa riscontro una pittura monocroma piatta, eppure differenziata nei toni e nella texture, tanto da rivelare  ad una percezione poco meno che subliminale la geometria cruciforme dei piani geometrici che segnano le sue superfici. Sebbene il cromatismo di Ad Reinhardt si limiti ad una materia cupa, grigiastra, che nega ogni seduzione emozionale del colore in favore di una astrazione assoluta, è evidente che il suo insegnamento diventa ben presto la condizione mentale per chi vuole perseguire una nuova via nel campo della pittura, esplorandone ogni eccesso e portando gli esperimenti al limite estremo delle possibilità espressive, il tutto dentro una cornice di simmetria e misura che riporta curiosamente nell’alveo della semantica europea il suo esempio.  E’ invece merito di Robert Ryaman se il percorso della pittura monocroma troverà una nuova vena espressiva, per certi aspetti ancora concretista, ma anche spiritualista.
Nato nel 1930, Rayman raggiunge la fama all’inizio degli anni Sessanta in accoppiata con molti maestri della Minimal Art, artisti come Agnes Martin, Brice Marden, Robert Mangold. Diversamente da Ad Reinhardt, che non è concentrato sulla variabilità cromatica dei suoi dipinti, Robert Ryman che giura fedeltà al colore bianco, apre ad un profondo interesse per la sperimentazione monocromatica, intesa però non come azzeramento dei significati (Malevic) o concettualismo (Duchamp) o, ancora, assolutezza della pittura (Reinhardt), ma piuttosto come ricerca dell’essenza della pittura. Sperimenta oltre alla tela, nuovi materiali,  anche anomali come l’acciaio e l’alluminio che si aggiungono a quelli tradizionalmente in uso, come la carta, la tela o il cartone. Nello stesso modo utilizza indifferentemente  anche nuovi media per dipingere, quali lo smalto opaco, i colori acrilici, il tutto finalizzato a percepire la pittura come luogo d’infinite, nuove possibilità espressive. La sua attenzione è attratta soprattutto dalla fisicità stessa del dipingere, lontano dunque da una visione programmata o concettuale, che rimanda ad altro il significato ultimo del quadro. La sua è una pittura severa e rigorosa ma nello stesso tempo di grande seduzione visiva nei risultati. E’ la sintassi interna del quadro che gli interessa maggiormente nelle sue sperimentazioni, anche in quelle di grandi dimensioni, che caratterizzano alcuni suoi importanti lavori d’arte ambientale. Paradossalmente la sua pittura è una pittura “realista”, che produce e crea un nuovo oggetto nello spazio. Come scrive Giuseppe Panza di Biumo, proprio a proposito di Robert Ryman, “la creazione dell’arte astratta non elimina il realismo ma capovolge la sua importanza”, e –possiamo aggiungere- il suo significato. Superfici quadrate e colore bianco sono gli strumenti di una personale costruzione del mondo, che Ryman ha trasmesso alle generazioni più giovani, quelle che come lui si vogliono confrontare con l’esercizio fisico e mentale del monocromo. Tra questi due maestri, all’incrocio dunque di un’esperienza assoluta della pittura e di una ricerca dell’essenza, si colloca per definizione la filiera dei pittori contemporanei che hanno scelto il quadro monocromo come campo di osservazione e di precipua identificazione di un personale percorso esistenziale. Sonia Costantini fa parte di questa filiera, anzi appartiene alla generazione più giovane. Alle sue spalle ci sono sicuramente le sperimentazioni di alcuni dei sopra ricordati pittori italiani dell’arte analitica, ma sono dell’avviso che il suo lavoro per coerenza e qualità possa più facilmente essere messo a confronto con quel gruppo di artisti americani, che approda in Italia negli anni Ottanta, proprio grazie all’interessamento e alla passione di Giuseppe Panza di Biumo. Parlo in particolare di Stuart Arends, Ruth Ann Fredenthal, David Simpson, Michael Rouillard, Winston Roeth, Phil Sims, tutti autori che hanno abbracciato il monocromo, pur con disparate sensibilità e diversi mezzi tecnici. Certo è che per Sonia Costantini, che nasce professionalmente proprio all’inizio degli anni Ottanta, ed è di alcuni anni più giovane rispetto agli americani sopra citati, l’immersione in questa pratica ha significato una collocazione molto originale, ma nello stesso tempo marginale rispetto alle correnti in essere in quel periodo nel nostro Paese. Ricordiamo, soltanto per fare un esempio, il poverismo di alcuni artisti in coda alla grande formazione degli anni Sessanta e Settanta, la nuova figurazione della Transavanguardia, e il concettuale (sono tutti figli di Duchamp!) che alimentava e tuttora nutre gli entusiasmi delle generazioni nate negli anni Ottanta.  Eppure, l’isolamento non costituisce ostacolo alla sua perentoria voglia di sperimentare aree per certi aspetti inedite dell’esperienza creativa, campi della conoscenza empirica e spirituale davvero poco frequentati dalla stragrande maggioranza dei pittori italiani. Se da Reinhardt impara, certo solo per contiguità, la ricerca dell’assoluto e da Ryman importa, sempre per vicinanza empatica, l’indagine sull’essenza, bisogna però pur dire che è la sua profonda appartenenza alla cultura artistica classica, che imprime al suo lavoro i segni più profondi: l’estasi e la melanconia, che vivono da sempre in tutta la sua pittura, non sono forse le primarie sorgenti di tutta la grande tradizione artistica europea dell’epoca moderna?   

Operazione mentale o naturale?
Nell’esplorazione del lavoro di Sonia Costantini, ci s’imbatte fin da subito in un problema che riguarda la pratica pittorica da lei adottata nella creazione dell’opera d’arte, pratica che riflette una specificità assai originale del suo fare pittura. Abbiamo più sopra osservato che i due grandi maestri della pittura monocroma, Ryman e Reinhardt, hanno introdotto nella sperimentazione, modalità fattuali tra loro assai diverse, in funzione evidentemente  della peculiare ricerca. Questo avviene anche per Sonia Costantini, che ha elaborato una personalissima pratica del fare, adottando una soglia molto alta di perfezione ma anche di complessità tecnica. La questione tecnica non è argomento secondario quando si parla di pittura monocroma, là dove pochissimi sono gli elementi/strumenti che l’artista ha a sua disposizione nella pratica del dipingere. Potremmo anzi dire che la scelta si limita a due soli  elementi, colore e forma, quest’ultima, in genere, quasi mai presente e data per evocazione o virtualità. Scrive  Giorgio Bonomi, autorevole voce della critica italiana contemporanea, che da molti anni segue il lavoro della Costantini : “Sonia Costantini usa la spatola, di piccole dimensioni, per dare il colore, il quale dapprima è ad acqua, quindi “volatile”, “etereo” e richiede molte velature, poi è ad olio, perciò più corposo e tale che va a proteggere il sottostante, più lieve e leggero”. E’ una tecnica molto personale, che risponde all’urgenza espressiva dell’artista, che proprio in questa particolare pratica del fare ha ricondotto e contenuto tutta l’infinita gamma delle sue possibilità creative. Un esercizio di lenta stratificazione del colore che non è più pigmento ma, grazie alla particolare metodica, si è trasformato in luce, luce purissima e chiara (scrive a questo proposito Bonomi: “anche quando il colore usato è più scuro il tono luminoso resta nitido”), che scorre sulla superficie dando corpo e apparenza di rilievo alla texture della pittura, più facile da osservare se la lettura avviene di lato, con uno sbilanciamento dell’asse visivo, così da catturare con lo sguardo, come  scrive ancora Bonomi, “ tutte le increspature, le sovrapposizioni, i tremolii della materia (colore)”, che non sono altro che i luoghi dove “abita la luce”, secondo la definizione della stessa Costantini, e dove il colore-materia perde la sua fisicità e si avvalora nella immaterialità trasparente della riflessione luminosa. “La mia struttura compositiva, definita da forme rigorose”- spiega ulteriormente la Costantini in un’intervista del 2002- “funge da impalcatura di sostegno delle diverse componenti del dipinto, così come io l’intendo. E’ il luogo abitato dalla luce. La sua ragione d’essere, inoltre non sta solo nell’esigenza di misurare la superficie, alla ricerca di sottili equilibri, ma è anche un modo per alludere ad una possibile ridefinizione dello spazio. Per questo ho bisogno di concisione, di semplicità nel tracciato, ma di complessità nella costruzione del tessuto pittorico. Il rigore delle forme e la stesura del colore sono concettualmente ed espressivamente necessari l’uno all’altra”. Nella dialettica colore-luce entrano dunque in gioco due variabili molto importanti per comprendere il lavoro della Costantini, da un lato un’impercettibile tessitura segnica, che si registra solo dopo alcuni minuti di osservazione del dipinto e che ci porta verso gli strati più profondi della conoscenza, e dall’altro lato lo spazio, che non si dilata oltre la cornice, ma seguendo un moto centripeto- come bene è stato chiarito da Bonomi- viene quasi risucchiato all’interno della superficie, attraendo in questo modo non solo “gli sguardi e i pensieri degli osservatori”, ma anche la fluidità immateriale delle minuscole particelle che ne definiscono la struttura fisica, spazio annullato quindi in un addensamento di significati, che stanno tutti dentro il perimetro del quadro e non rimandano ad altro da sé.  
I titoli delle sue tele confermano la non-oggettività assoluta che caratterizza tutto il suo lavoro: sono pari ad asserzioni, esplicitano campi d’indagine, sono mezzi interpretativi che, sempre e comunque, si identificano con lo strumento principe della pittura, ovvero con il nome del colore che occupa la superficie, virato nella sua peculiare essenza luministica: una sorta di schedario delle infinite possibilità espressive della materia-luce, che s’incontra nel mistero dell’atto creativo con le pulsioni intime ed esistenziali dell’artista. Ed è in questo incontro, che il colore agisce e reagisce sul piano semantico alle sollecitazioni psichiche più profonde, ne esplora il mantra, ne sollecita l’espressione, la valorizzazione delle più acute note emotive, vibrazioni e palpiti dell’essenza più segreta della creazione. Proprio in questa direzione sembra spingersi la risposta di Sonia Costantini alla domanda di Claudio Olivieri sul significato della sua pittura: “Essa è il tramite per pensare meglio il mondo, luogo di transito dove le cose sembrano prossime a svelarsi; essa è l’urgenza del dire con il saper come dire, frammento di spazio dove colori, figure, forme, dicono l’ineffabile, visitati dalla luce”. Usa aggettivi e verbi che rimandano immediatamente alla misteriosa qualità visionaria della creazione: la rivelazione e l’ineffabilità non sono forse parole che rimandano alla natura inaccessibile ad ogni descrizione dell’atto creativo?  Eppure, sappiamo che grazie all’empatia, all’einfühlung teorizzata da Vischer- che così nominava il rapporto emozionale di partecipazione che si prova davanti ad un’opera d’arte- il mistero della creazione artistica si sostanzia nella relazione tra il fare e il guardare, tra il cercare e il trovare, tra l’accreditare e lo svelare, tutte azioni che coesistono nel rapporto dell’artista con il suo pubblico, diventato ora protagonista di un nuovo atto creativo, che si realizza nella vista e nella conoscenza delle verità rivelate. Siamo dunque di fronte ad una vera e propria epifania della pittura, che si libera davanti al nostro sguardo nella naturalezza della sua pura essenza, ovvero nella ritualità rarefatta delle campiture di colore, nella profezia di una fattualità materiale che porta in sé conseguenze inimmaginabili, scoprendo il significato più profondo di una malinconica discesa verso l’inafferrabilità della vita, che attraversa l’indicibile solitudine dell’anima. Per quale strada riemergere alla superficie, ritornare da dove si è giunti, ripercorrere a rebours i sentieri della discesa? Cosa scuote il cuore dell’artista nell’esperienza d’infinitezza della sua stessa creazione?

I requisiti per fare arte sono la ricerca dell’assoluto e dell’universalità.
Probabilmente questa vecchia sentenza contiene una parte di verità e mostra una strada possibile per la risalita. Soprattutto sembra bene rispondere a quella ricerca di senso della pittura monocroma, per lo più soggetta ad un’interpretazione semplicistica o giudicata superficialmente pittura che nega il valore etico ed estetico, proprio a causa del suo riduzionismo ossessivo. Eppure, se less is more come dichiaravano i minimalisti (a cui ben poco deve oggi la pittura monocroma), anche nel campo di questo specifico genere, la rarefazione del segno, del colore e dello spazio, spinta al limite dell’assoluto Nulla formale, materico e cromatico, potrebbe significare molto di più di un esercizio intellettuale: vediamo del resto ripetersi di generazione in generazione, da oltre sessanta anni, la stessa ansia di sperimentare queste zone off-limits della pittura. C’è da credere che il destino di questa particolare esperienza creativa, ancora non esaurita nel suo filone più autentico, possa essere segnato da una parabola discendente? Non è forse che proprio al disinganno di molta pittura concettuale postmodernista, così come “all’attuale fioritura di un’arte effimera, che segna”- come spiega Barbara Rose, “la seconda fase della secolarizzazione dell’arte profetizzata da Marcel Duchamp”, dobbiamo la sua inesauribile vitalità? E quella speranza nella sua capacità di resistere ai flussi mediatici e ai poteri avversi del mercato, non s’identifica forse con la ricerca dell’assoluto e dell’universalità, alla quale essa ha votato tutta la sua energia? A guardare le opere di Sonia Costantini, capaci di trasmettere sempre nuovi significati, nuovi turbamenti, ma anche nuove profezie, sembrerebbe proprio che questo sia uno dei pochi fronti dell’arte contemporanea, in grado di toccare, oggi come in passato, le corde invisibili e più sensibili di quella ricerca esistenziale, che attanaglia il cuore dell’artista e spalanca davanti ai nostri occhi l’estasi di una possibile verità.



Matteo Galbiati      | english text
In Overpainting: riscrivere la pittura
In Connecting point LA / Overpainting, cat. della mostra Arena 1 Gallery, Santa Monica, Los Angeles, CA, USA; Fondazione Leonesia, Puegnago; BSKunstraum Unterland, Egna BZ


Guardando alla ricerca di Sonia Costantini riscontriamo la pratica di una pittura monocroma che vede la partecipazione attiva di un colore che, non ovvio nella sua totalità assordante e inevitabile, riporta, nei segni minimi della sua epidermide, il vigore del suo pronunciamento. Il colore si stende attraverso una complessa tramatura di pennellate che lo animano con una sensibilità acuta e recettiva di ogni variabile data dall’intorno. Questo aspetto, particolarmente curato da Costantini, rende la cromia uno status indefinibile e in-arginabile, perché sensibile alle influenze della luce, e spalanca sempre al colore interpretazioni diverse. Inafferrabile e imprecisabile, si fa categoria convertibile e concetto verificabile solo nella singolarità della sua circostanza precisa e attuale. L’opera si “vede” solo nel luogo della sua presenza, acquisendo valore suscettibile alle condizioni dello sguardo di chi l’osserva, quando, nell’attimo speciale del loro incontro, avviene il riscontro del suo valore e delle sue qualità propositive. I suoi colori sono espressione di una passionalità emotiva vissuta in ogni istante del suo fare: dalla preparazione del supporto, alla stesura del colore, dalla definizione finale alla contemplazione ultima.


Annarosa Buttarelli      | english text

Pittura di rivelazione
in: Sonia Costantini. Colore apparente,  catalogo della mostra, Galleria Il Milione, Milano
Bollettino del Milione n. 189, Milano, 2014


Sono convinta che, quando si è in presenza di un grande autore, di una grande autrice, sia un obbligo etico-scientifico, mettere da parte la tentazione di far derivare l'opera, di affiliarla, di farle pagare debiti, di collocarla velocemente in correnti, appartenenze, esclusività. Tutte queste sono strade brevi che facilitano solo la composizione del puzzle del mercato dell'arte, ma non certo la lettura dell'opera né la relazione soggettiva con essa. Tanto più nel caso di Sonia Costantini, la cui paziente, quotidiana ricerca artistica è ancora abbastanza lontana dal vedere riconosciuta la sua originalità, sebbene sia già stata indicata tra le “grandi” che percorrono le vicissitudini della pittura contemporanea. Una buona intuizione che ci avvicina alla sua originalità l'ha avuta Panza di Biumo, quando ha espresso l'idea che il lavoro di Sonia Costantini sia “pittura di colore”.
Non so se l'eccellente collezionista di arte contemporanea avesse in mente, con questa formula, quello che ora proporrò partendo dalla mia esperienza di lettura delle opere, ma so che bisogna provare a intuire “cosa” lei dipinge, dipingendo solamente colori, innumerevoli e offerti a noi, in questa lunga fase della carriera dell'artista, nella scelta di un colore alla volta, allo stesso modo in cui si può onorare una sola presenza spirituale alla volta.
Per me, è fuori di dubbio che la pittura di Sonia Costantini sia da incontrare come esperienza spirituale prima ancora che estetica, perché le sue tele, per quanto minuscole siano, impongono subito una certa compostezza del corpo e dello sguardo, come quando ci si dispone a pregare, a meditare, ad ascoltare una nota vibrante che sentiamo benefica per la vita dello spirito. L'arte della pittura, diceva Maria Zambrano, “è figlia della luce religiosa dei misteri”. Infatti credo siamo di fronte a una pittura di rivelazione, e la ricerca dell'artista si annuncia come fosse una ricerca continua di ri-velazioni spirituali, poiché deve aver intuito nel colore qualche cosa che ha il segno dell'eterno: colore e rivelazione (rimettere il velo) hanno all'origine più o meno lo stesso significato. La radice indoeuropea della parola “colore” è KAL- che significa grosso modo “nascondere”, secretare”, dunque tornare a coprire, a velare ciò che stava per manifestarsi pienamente e che si è solamente intra-visto, stando nella nostra ombra umana. Più finemente, “colore” significa “qualità aggiunta”, perché “posta sopra l'oggetto”. Come a dire che il colore non solo ricopre, ma aggiunge una qualità nuova offerta dalla intuizione artistica a ciò che si è rivelato.
Diciamo allora che il lavoro di Sonia Costantini, e ciò che indica la sua originalità nel vasto mondo della pittura monocroma, è il tipo di ri-velazione che lei pratica, molto vicina al nome sanscrito di colore, VARNA, copertura epidermica. Si può comprendere ciò che ha ottenuto l'artista osservando la sua tecnica: strati di minuscole, precisissime, innumerevoli spatolate di colore fino a ottenere il colore ri-velato. L'effetto è più tattile che visivo, di primo acchito: si “sente” una pelle, un'epidermide viva e pulsante, perfino cangiante nella sua forma e nelle sue sfumature a seconda dei giochi di luce sulla tela.
E' una pelle pietosa quella che Sonia Costantini cerca per rivestire il corpo dell'oggetto rivelato; e della pelle ha l'elasticità, la vitalità, perfino la leggerezza necessaria a custodire ma anche a riscaldare ciò che sta invisibilmente coperto.
I Padri della Chiesa intendevano il colore come “scrittura di luce”, e si è parlato, nel caso di Sonia, di una pittura-scrittura, alludendo all'orizzonte aureo delle icone che senz'altro ha presente, ma anche intendendo i tratti di spatola come lettere di un alfabeto segreto. Anche il gesto della scrittura (un altro modo di ri-velare) può andare bene per illustrare l'arte di Sonia, ma dobbiamo qualificarla di più, per rendere giustizia alla sua originalità: bisogna saper vedere che si tratta di una scrittura che rende visibile il DNA materico di una pelle trovata e ricomposta con devozione su un corpo invisibile. E si può fare legittimamente addirittura l'ipotesi che il “corpo” di cui sto parlando sia il bianco assoluto, la luce assoluta e totale, ovvero il “corpo verginale” che, dicevano i bizantini, sorregge il colore e da questo è celato. Forse il corpo fisicamente consistente e all' origine di ogni creazione, non un fantasma.
In questa mostra al Milione ci sono due tele, sole su una parete, in cui il bianco è dipinto nella virtuosistica declinazione dell'opale e di leucos, giusto per accennare alla vera posta in gioco: “il bianco assoluto dove tutti i colori finiscono, come i fiumi nel mare” (MZ), cosicché la pelle dei due bianchi di Sonia Costantini ne è solo l'annuncio, la rivelazione. Così, a fianco della porta d'ingresso, a custodirla, ecco un giallo aureo, da solo a proteggere le “porte regali” del mistero dell'impossibilità, per noi esseri umani, di reggere la vista degli assoluti, di sopportarne la trascendenza. E il mare è presente negli “orizzonti”, dieci tele su tavole di legno, sorgenti da orizzonti di vari blu che vanno a confluire nelle due più grandi tele, Blu reale, in cui i fiumi confluiscono giocando sul significato ambiguo di “reale” che si scioglie nella formula perfetta a cui mi viene da pensare: realtà sovrana. Un'altra intuizione che mette in collegamento l'artista con tutta l'eterna ricerca a cui ho alluso, a cui lei stessa continua a alludere.
Nel progettare questa mostra, l'artista dice di avere pensato alla disseminazione, al frammento, e lavora sull'elegia del frammento disseminando a ellissi su una parete 18 piccole tele il cui nome-colore è legato a autentiche pietre preziose. Anche in questo caso i lacerti di pelle astrale concorrono a disegnare un vortice cosmico creativo che, di nuovo, ci riporta alle ragioni dell'originalità di Sonia Costantini: sono balbettii mistici, sono concrezioni di colore che rivelano non l'esplosione di luce creatrice originaria, che non possiamo né potremo mai vedere, ma rivelano i suoi doni successivi. Si potrebbe perfino tentare un percorso di colore in colore, ne verrebbe fuori una specie di canto. Forse è questo il luogo verso cui si sta dirigendo il lavoro di Sonia Costantini: paesaggi spirituali che hanno la grandezza del cosmo, una grandezza capace di raccogliersi tutta in una perla di invisibile bianchezza assoluta.


Kevin McManus    

Sonia Costantini: l'esperienza della pittura
in  TITOLO nuova serie - anno IV (XXIV) - N. 7 (68),  inverno-primavera 2014, Perugia


C'è una consuetudine, nel modo in cui il pubblico sempre più ampio - e sempre meno attento -  dell'arte contemporanea tende a spiegarsi, forse a spiegare agli scettici, l'evoluzione della pittura nel secolo appena trascorso; una consuetudine forse appena incoraggiata dalle semplificazioni di alcuni manuali scolastici o dalla superficialità schematica con le quali li si legge. Quella della pittura del Ventesimo secolo sarebbe una vicenda "in negativo", fatta di progressive e sempre più radicali rinunce o sottrazioni: l'astrattismo avrebbe sottratto la figura, l'informale la forma, alcune pratiche analitiche e concettuali, infine, persino l'elemento materiale della pittura. Una lettura secondo la quale il pittore contemporaneo - quello, almeno, che non opta per i "ritorni" della transavanguardia - altro non sarebbe che un costante distruttore. Una visione nichilista del modernismo, dunque, che del resto è rafforzata in più di un caso dalla lettura parziale e pigra di alcuni dei suoi "testi sacri": gli scritti di Clement Greenberg, ad esempio, e in particolare la summa di Modernist Painting (1960), vengono spesso citati nella loro pars destruens ("l'arte avrebbe sicuramente ristretto la sua specifica area di competenza"1) e non nell'altrettanto fondamentale pars construens ("ma nel contempo avrebbe reso il possesso di quell'area molto più sicuro"2). Tra le forme di produzione artistica più danneggiate da quest'ottica riduttiva c'è sicuramente la pittura monocroma, letta unicamente come arresa nichilista alla superficie, come "grado zero", anche al di là degli esempi - limitati e storicamente pertinenti - nei quali proprio questo era l'intento degli artisti. Nello snodo tra anni Cinquanta e Sessanta, una soluzione di questo tipo era al tempo stesso un esito del formalismo, più o meno seriamente preso alla lettera, come argomenta Arthur Danto3, e una ricerca di silenzio, di ritmo e di struttura dopo una stagione nella quale il "pieno" (di gesto, di materia, di quadri) aveva ampiamente prevalso sul "vuoto". Così Benjamin Buchloh, nel parlare di Frank Stella e dei suoi contemporanei europei (Manzoni e Klein su tutti) afferma che il monocromo "non solo articolava istanze di resistenza o rifiuto, ma costituiva una dichiarazione di sconfitta e di abdicazione, corrispondente ad una più generale perdita della capacità di accedere alla pienezza psichica e all'esperienza sensoriale"4. Le parole di Buchloh sono particolarmente significative, poiché la "pienezza psichica" e "l'esperienza sensoriale" - accorpabili come "pienezza psichica" dell'esperienza sensoriale - sembrano invece pensate apposta per descrivere la ricerca di Sonia Costantini, una delle rappresentanti più esemplari di una tendenza specifica della pittura italiana e internazionale degli ultimi trent'anni, legata allo studio e all'investigazione poetica della superficie di colore all-over. Definire quest'arte monocroma è riduttivo e non del tutto esatto: da un alto la Costantini, come del resto molti colleghi impegnati in sperimentazioni analoghe, non si limita all'uso di un solo colore, piatto e "sordo", ma opta piuttosto per una stratificazione di stesure cromatiche il cui dialogo reciproco emerge nello spazio temporale dell'osservazione, nell'acclimatazione dell'occhio alla lettura profonda di una superficie che di per sé, allo sguardo sommario e impaziente, può apparire come un semplice schermo che nasconde lo strato sottostante. Ma un altro inconveniente del termine "monocromo", o di qualsiasi definizione sintetica, è quello di accomunare come pura scelta formale o filosofica la pittura della Costantini e quella di altri artisti italiani della stessa generazione, da Paolo Iacchetti a Domenico D'Oora. Artisti per i quali la superficie di colore non costituisce in nessun modo un "levare", una negazione, ma piuttosto un aggiungere, e per i quali l'esercizio sulla superficie di colore, sulla percezione e sulla riflessione, è la fonte di infinite possibilità di differenziazione, da un autore all'altro innanzitutto, ma anche da un'opera all'altra entro il medesimo percorso individuale. Artisti che spingono il fruitore a concentrarsi non su quello che manca all'interno del dipinto, ma su quello che c'è. Non a caso, già entro l'orizzonte del "quadro bianco" di Danto, in un clima che invece non disdegnava né la negatività del crepuscolo modernista né una tautologia di profumo concettuale, gli artisti si preoccupavano di ciò che restava, dell'apporto positivo della loro pittura: Robert Ryman non esitava ad esempio ad affermare che i suoi lavori "non sono assolutamente pittura monocromatica (.......). La mia missione è usare la pittura e fare in modo che grazie ad essa succeda qualcosa (.......). Ma lavoro sempre con il colore. Non vedo me stesso come uno che produce quadri bianchi. Faccio quadri, sono un pittore"5.
Nell'osservare le opere di Sonia Costantini viene ancora una volta da pensare a Susan Sontag, e al suo invito ad abbandonare gli eccessi dell'interpretazione o, a maggior ragione, della spiegazione ("cosa significa la scelta di presentare una superficie apparentemente uniforme di colore?") e fruire "eroticamente"del quadro. Un'erotica intesa non tanto come pura fisicità, poiché in Costantini il lavoro principale è quello svolto dalla mente, che allena lo sguardo ad espandersi oltre la mera superficie del supporto, ma come dialogo ravvicinato, come un pensiero che può svilupparsi esclusivamente in praesentia, attivato da una relazione fisica tra dipinto e osservatore. Mi pare che la categoria dell'"erotica" funzioni anche in quanto partecipe della dimensione temporale; non c'è un'immediatezza percettiva, una visione nel senso puntuale, e spesso banale, dato a questa parola dalla contemporaneità, ma piuttosto un'esperienza, una relazione articolata nel tempo e, in quanto tale, sempre e comunque "instabile". Torno a Greenberg, non perché la sua autorità sia un riferimento necessario, ma perché la crucialità della sua riflessione insiste su un punto che Sonia Costantini, pittrice ottica ma non certo optical, rappresenta in modo paradigmatico: sempre in Modernist Painting, Greemberg propone come unica via di "salvezza" dell'arte, e poi di ciascun'arte in particolare, la capacità di dimostrare "che il tipo di esperienza che fornivano aveva un valore proprio, non riscontrabile in nessun altro tipo di attività"7. Ora, questa pittura che si ostina, nonostante tutto, ad essere moderna - puntando non sull'obsolescenza del termine rispetto al post-moderno, ma sulla sua relatività - sembra offrire al fruitore proprio la specificità dell'esperienza-pittura: uno spazio che si costituisce davanti allo sguardo, attivandolo sia come facoltà fisica, percettiva, sia come attività mentale e spirituale, significando se stesso e l'esperienza di se stesso, mostrando il modo di guardare il mondo che è specifico della pittura. Una specificità confermata dall'impossibilità di questa pittura di costituirsi in immagine, nel senso mass-mediale del termine: non solo in immagine tecnicamente riproducibile, come fa correttamente Claudio Cerritelli quando afferma che "ancor più imprendibile è la qualità del colore al cospetto della sua riproducibilità fotografica, in quanto la complessa identità della superficie dipinta - che ad occhio nudo si carica di emozioni e umori soggettivi - in rapporto all'occhio meccanico della fotografia subisce alterazioni ancor più evidenti rispetto alla sua complessa identità"8. È impossibile anche l'immagine mentale: nessun file entro il database della memoria visiva arriva a corrispondere all'esperienza del quadro, che può casomai essere rievocata come processo e relazione, ma che può ripetersi solo sul luogo dell'incontro; e neanche qui è comunque in grado di arrestarsi in un fotogramma, in una fase singola della presa di coscienza dello sguardo davanti al colore.

1 C. Greemberg, Pittura modernista, (1960), trad. it. in L'avventura del modernismo. Antologia critica, Johann & Levi, Monza 2011, p. 118
2 ibidem.
3 Cfr. A. C. Danto, Dopo la fine dell'arte. L'arte contemporanea e il confine della storia, (1997), trad. it. Bruno Mondadori, Milano 2008, pp. 158-182.
4 B. H. D. Buchloh, Painting as Diagram: Five Notes on Frank Stella's Early Paintings, 1958-1959, "October", 143, Winter 2013, p. 135, (traduzione nostra).
5 R. Ryman, in conversazione con P. Tuchman, An Interview whit Robert Ryman, "Artforum", IX, 9, May 1971, p. 46.
6 S. Sontag, Contro l'interpretazione, in Contro l'interpretazione, (1964), trad. it. Mondadori, Milano 1967, p. 26
7 C. Greemberg, Pittura modernista, cit., p. 118.
8 C. Cerritelli, Libertà del pensiero-luce, in Sonia Costantini, Nicolodi,  Rovereto, 2005, s.p.

                                                                                                           

Peter Assmann    

Sonia Costantini, Un mondo di colori per nuovi spazi
In Chromospazio.Sonia Costantini, cat. della mostra, Complessi Museali di Palazzo Ducale, LaGALLERIA Arte Contemporanea - Palazzo del Capitano, Mantova, Cat. ELECTA 2016


I.
Un alchimista prova sempre ad andare oltre quei sistemi previsti dalle scienze, cosiddette naturali, limitate dallo scetticismo e da una visione del mondo legata solo alla ragione misurabile, connessa a un concetto tecnico fuori dall’uomo. Il suo metodo è orientato a unire, a collegare, a trovare un sistema di addizione equilibrato; il suo atteggiamento è sempre alla fine sintetico. Non bastano per lui i passi analitici: un insieme deve essere sempre visibile, anche solo come una lontana citazione. Ed è sempre l’uomo che sta nel centro, come partner del suo mondo, come punto di riferimento di tutto il sistema che poi sarà da lui chiamato “mondo”.
Un alchimista non si stanca mai di valutare questo “cosmo” che così è chiamato mondo, con sempre più elementi che vengono a essere conosciuti e uniti per restituire una visione dell’universo umano più completa possibile. Quello che interessa alla fine è l’insieme, il totale, lo sviluppo sempre più avanti rispetto al solo intreccio delle cose particolari, della loro mobilità e metamorfosi. Si parla di un’anima che prende spazio, di un’esperienza congiunta, che diventa infinito, una concezione del muoversi che diventa un’estensione pluridimensionale del tutto.
Quindi da quanto è stato detto scaturisce un incontro di sinergia, un equilibrio di energie. Sempre con un additivo di luce se parliamo anche dell’arte in questo contesto.

II.
Questo atteggiamento sintetico non si limita ovviamente ai fatti materialistici ma è sempre connesso a tutti gli aspetti immateriali. Il mondo delle idee è così visto con la nozione di una permanente possibilità di sintesi attraverso un passo più in profondità e anche allo stesso tempo più in alto, un passo sempre per allargare l’orizzonte del possibile. Un atto di concentrazione in questa maniera deve essere sempre pensato come un gesto di diffondersi, quasi come un “permanente matrimonio”di prospettive.
Ogni materia è così legata sempre allo spazio immateriale, al processo di “digerire” tutti i contatti del mondo senza trasformarli del tutto ma piuttosto amalgamarli e restituirli nel modo più concentrato possibile. Luce non è mai solo materia oppure solo immateriale, può essere pensata come questo “spazio” dell’insieme in un abbraccio permanente, come un’“ani/ma/materia”.
Questo atto di amalgamare è sempre orientato verso il far crescere e nello stesso momento alla crescita stessa: “biofact”e “artefact” si uniscono per un movimento congiunto di sviluppo, di concentrazione, di allargamento.

III.
Insomma: parliamo di un dinamismo sempre in essere, per andare oltre, per discutere fasi di ampliamento verso un atto di condensazione, oppure viceversa, si tratta di creare così un permanente scambio di energie fra onde e volume discutendo in questa maniera una spazialità delle luci, della luce, che ha assunto in sé tutta l’ombra. Si tratta di una spazialità senza coordinate, senza misura, ma sempre orientata al pieno. Uno spazio sempre nuovo, fresco e sempre coinvolgente: un vero benvenuti a tutti.

IV.
Tutto questo processo, che fa parte del concetto di “opera d’arte” dell’artista Sonia Costantini, si sviluppa attraverso una comunicazione fra spettatore umano e opera, o meglio “dispositivo”. Ma non si tratta di un’“opera d’arte” tradizionale ma piuttosto di un partner di comunicazione, un impulso visivo con il quale lo spettatore sviluppa un concetto, una realizzazione di una energia spirituale chiamata da secoli “arte”. Questo lavoro artistico è del tutto concettuale, può essere definito solo come evento cerebrale.

V.
E questo evento cerebrale è sempre legato alla domanda: Che cos’è un colore, come funziona, che materialità hanno questi colori, a quale immaterialità sono legati? Come si può unire diverse materie per arrivare a un (nuovo) spazio coloristico. Come è possibile andare avanti con la storia di un cromatismo come concetto basilare per discutere le qualità del cosmo umano?

VI.
Questo il mondo artistico contemporaneo di Sonia Costantini che è stata invitata a intervenire in uno dei più complessi mondi culturali del passato, il Palazzo Ducale di Mantova con il suo sviluppo spaziale così ampio di architettura e di arte. Il complesso museale diventa per l’artista un ambiente creativo e insieme un ambiente sintetico dove agire in un sincretismo operativo e mentale. Gli interventi della Costantini, attraverso i loro passaggi cromatici, pervengono a un’alta concentrazione di questa modalità fattuale, ma permettono anche di acquisire un’altra modalità percettiva, per un’esperienza sempre più perfetta e ancora, se si può, perfettibile.

Alberto Barranco di Valdivieso
Sonia Costantini
in “PERCEZIONI” – Michael Craik, Sonia Costantini, cat. della mostra
Theca Gallery, Milano, Quaderni AlphaBet, n° 17, Milano, aprile 2018


Il “colore assoluto” è un tipo di pittura costituita da un fare rigoroso, e nei suoi esiti sintetici, sorprendentemente complesso. Attraverso la sintesi infatti si esprime la perfezione di una prassi che trasforma, come scrive Peter Assmann, una semplice superficie dipinta in un “dispositivo di comunicazione”. L’omogeneità dei monocromi inganna l’osservatore superficiale che ascrive all’opera una semplicità di costruzione che è invece il risultato di un processo estetico e “morale” (o teoretico) complesso.
Sonia Costantini, artista mantovana nata nel 1953, dipinge ed espone fin dai primi anni Ottanta meritando già nel 1987 di essere inclusa in una mostra collettiva al Grand Palais di Parigi sulla giovane pittura europea. Giunge al singulis coloribus dopo esperienze diverse, come naturale evoluzione di un processo di lavoro che l’ha portata in collezioni internazionali come la raccolta di Giuseppe Panza di Biumo, appassionato di questo tipo di pittura, il quale ne promosse largamente il lavoro.
L’artista comprende che il monocromo può diventare un potenziamento delle sue intuizioni e ne soppesa l’insidiosa complessità. Infatti non è possibile gestire questo tipo di pittura con leggerezza tecnica perché, proprio in ragione della esiguità degli elementi in gioco, un solo colore e il suo supporto, comunicare all’osservatore il senso della “dimensione” è un’operazione difficile.
La dimensione è un concetto astratto, non dipende dalle leggi della prospettiva, della geometria e della matematica. È un luogo mentale, costruito attraverso la maglia dell’inconscio, di cui la Sensibilità restituisce la percezione della nostra posizione nello spazio fisico attraverso la lettura ottica delle immagini e la percezione della materia oggettiva. La dimensione dunque è uno “stato” esistenziale relativo all’ambiente, non una qualità dell’ambiente.
In questa direzione va compresa la ricerca di Costantini, che non si chiude nella radicalità della pittura aniconica bensì resta duttile alle evocazioni del proprio libero sentire emozionale. Il colore è utilizzato per attivare un meccanismo pittorico suggerito dalla stesura del pigmento ma non imprigionato da codici minimalisti. L’artista, interpretando in modo così personale il tipo del monocromo, rende allo stesso una attitudine sentimentale inedita traducendo il principio di “essenza” del colore in potenziamento dell’intensità espressiva più spontanea.
Il lavoro si impernia nel rapporto fondante che la sua arte instaura con lo spazio inteso come dimensione percepita dalla coscienza attraverso il fenomeno della rifrazione cromatica.
Le opere di Costantini si presentano come tele intensamente colorate fino ai bordi laterali: le tele presentano colori molto intensi che l’artista predilige, specie i rossi e le tonalità fredde, e che prepara lei stessa sperimentando tonalità originali e non riproducibili. La qualità cromatica viene resa con stesure successive di pittura, prima all’acqua poi acrilica, trattate con intensità variabile e tramite vibrazioni superficiali. Queste, sottilissime e materiche, sono originate dalla direzione e dal movimento impresso con la spatola a seguire il verso e la qualità particolare della trama e dell’ordito della tela. L’esercizio meccanico del movimento manuale, costruisce la struttura cromatica dell’opera.
L’elemento fondante di questi lavori è il contralto tra la superficie frontale e i bordi del quadro, spessi e telati per piegatura. Si crea in questo modo una relazione biunivoca tridimensionale, immediatamente leggibile, che “spinge” il fronte della tela rispetto al suo spessore, sottolineando l’elemento chiave di questo dispositivo pittorico: la superficie frontale del quadro presenta increspature sottili determinanti una differenza immediatamente leggibile in controluce rispetto ai bordi che presentano solo la stesura del colore di base.
L’effetto “pelle d’oca” che frontalmente l’osservatore percepisce è simile al fremito di una membrana sottoposta al suono. Un suono muto ma intuibile per vibrazione è dunque un’immagine efficace di questa permeabilità dinamica del colore che sembra propagarsi per forza di oscillazione creando una pressione nell’ambiente circostante.
In questa operazione, che supera a mio avviso l’aspetto “analitico” della pittura chiusa nella dimostrazione di sé, emerge una forza espressiva personale che evidenzia il tono sentimentale e aperto del lavoro dell’artista.


 

Peter Assmann 2016
Kevin McManus
Annarosa Buttarelli 2014
Matteo Galbiati 2014
Gabriella Belli 2010
Panza di Biumo 2010
Sardella 2010
Alberto Barranco
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